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Perché l’Italia deve investire sul Mediterraneo

Conversazione con Matteo Bressan (Lumsa/Sioi/Ndcf) sull’importanza del Mediterraneo per l’Italia. In una fase sensibile per il nostro Paese, la proiezione nel bacino è cruciale per il ruolo internazionale dell’Italia. Tra distensioni e instabilità, cosa potrebbe – e dovrebbe – essere Roma nel Club Med

Il bacino geopolitico del Mediterraneo allargato – l’area vasta che da Gibilterra si allarga fino a Bab el Mandab – sta vivendo una nuova centralità legata anche a una serie di processi di distensione in atto tra gli attori principali. Si pensi per esempio al dialogo avviato in Iraq tra Iran e Arabia Saudita, alla formalizzazione della riapertura delle relazioni tra Israele e Turchia, alla fine dell’isolamento del Qatar nel Golfo, o ancora all’avvicinamento tattico tra Ankara ed Egitto.

Tuttavia all’interno di questo stesso bacino permangono punti di potenziale infiammabilità, situazioni di (in)stabilità precaria, (dis)equilibri da curare per evitare che diventino scaturigine per crisi profonde in grado di alterare il quadro generale. E, davanti al disimpegno statunitense frutto di una maggiore attenzione per l’Indo Pacifico, potrebbe aumentare la presenza della Cina, che ha già espresso le proprie attenzioni riguardo alle infrastrutture di gestione portuali dell’area e le proprie volontà di proiezione in ambiti come per esempio il Corno d’Africa. A maggior ragione se si considera che su questa area geostrategica – snodo centrale per i collegamenti tra Oriente e Occidente – potrebbero farsi sentire con forza i riflessi della guerra russa in Ucraina, anche in un futuro post-bellico, aggravando condizioni già in equilibrio precario.

Un esempio è la Libia: ancora senza governo, Tripoli ha vissuto una fase in cui la ricerca di stabilizzazione era guidata da quelle volontà di distensione regionale, che però è attualmente entrata in stallo. Quello che si sta producendo è il rischio di una nuova deriva violenta, che alteri il clima anche tra i player esterni, i quali avevano trovato una convergenza tattica manifestata nella creazione del governo di unità nazionale nel 2021.

“Le mancate elezioni libiche del 24 dicembre 2021 hanno evidenziato, anche alla luce del deterioramento delle condizioni politiche e di sicurezza del paese, quanto possa esser rischioso costruire processi di transizione politica quasi esclusivamente incentrati sulla celebrazione delle elezioni, sottovalutando quanto la transizione debba esser articolata in una serie di passaggi, quali l’adozione di una costituzione e una legge elettorale condivisa e, soprattutto, istituzioni in grado di svolgere le proprie funzioni”, spiega Matteo Bressan, docente di Sioi e Lumsa e analista della Nato Defense College Foundation.

L’esperienza afghana, quella irachena e, più recentemente, le violenze contro il Parlamento di Tobruk all’inizio del mese di luglio “sono un monito per la Comunità internazionale che non deve abbassare la guardia sulla crisi libica che ha un impatto determinante sulla sicurezza del Mediterraneo, in termini di presenza di attori esterni ostili, interruzioni di approvvigionamenti energetici, instabilità diffusa, terrorismo e flussi migratori che possono essere usati come uno strumento di guerra ibrida”, continua Bressan.

“Una regione, quella del Mediterraneo che come ricordato anche nello Strategic Compass, che ha un’importanza strategica per la nostra sicurezza e stabilità e, nella quale l’Unione Europea ‘è determinata’, e aggiungo obbligata, a intensificare gli sforzi”, aggiunge Bressan, che è anche direttore del Corso di formazione in intelligence, sicurezza e interesse nazionale della Lumsa.

La questione libica è importante non solo perché rischia di tornare a essere un bubbone esplosivo geograficamente al centro del Mediterraneo, ma anche perché si può collegare a un doppio quadro regionale. Da sud, la fascia del Sahel sta subendo forme di instabilità securitaria legate all’attecchimento di un terrorismo jihadista tossico connesso allo Stato islamico, che influenza i vari gruppi già presenti, convincendo questi che la guerriglia rappresenti la miglior difesa di fronte ai governi centrali. Questo si riflette sulla tenuta di alcuni Paesi, all’interno dei quali si sono già verificati episodi di colpi di stato e rovesciamento degli equilibri.

Ma la Libia ha un peso anche nel quadro nordafricano ovviamente, dove l’Egitto è in piena crisi economica (e dunque sociale), tale da attirare l’assistenza corposa dei partner del Golfo; la Tunisia è un Paese che sta vivendo una stagione di ritorno autoritario impantanato tra debito, inflazione e disoccupazione; Algeria e Marocco sono in un periodo di tensioni altissime a causa del Sahara Occidentale.

Se questo genere di contesti richiama al problema securitario – la possibilità di nuovi scontri armati, il tema delle migrazioni connesso, la diffusione del terrorismo, toccano direttamente l’Europa e l’Italia – la condizione algerina ricorda soprattutto al nostro Paese quanto delicata sia la questione della sicurezza energetica. Gli accordi siglati con Algeri dal governo Draghi hanno portato la nazione nordafricana in cima alla lista dei fornitori italiani post-sganciamento dalla Russia – ma questo genere di fornitori vivono condizioni non meno complesse (sia interne che esterne).

Sullo stesso argomento non possono poi essere dimenticate le dinamiche legate ai grandi reservoir energetici (egiziani, israeliani, ciprioti) scoperti nel Mediterraneo orientale, che è un quadrante ad altissimo potenziale (economico, commerciale, umano), ma che soffre di condizioni altamente critiche.

Il quadrante del Mediterraneo orientale è, anche alla luce delle recenti scoperte di Eni e Total, di fondamentale importanza per la sicurezza energetica del italiana e, secondo Bressan, “in questa direzione, va l’allargamento dell’area di operazione di Mare Sicuro, recentemente rinominata Mediterraneo Sicuro. Un’operazione che passando da 160.000 mila a 2.000.000 Km quadrati circa di area di operazione, consentirà alla Marina Militare, di garantire una strutturata presenza aeronavale, inclusi mezzi subacquei, in tutti i quadranti della regione compreso il Mediterraneo orientale in relazione all’esigenza di proteggere rilevanti interessi nazionali e contribuire alla stabilità internazionale, in cooperazione con la Nato, l’Unione Europea e le Nazioni Unite”.

Tra le varie criticità, c’è anche lo stato comatoso del Libano, da cui per altro Hezbollah minaccia guerra contro Israele se la questione dei confini marittimi (connessa ai giacimenti di quelle acque) non verrà risolta. O ancora, sempre nella stessa area la Turchia sembra ancora piuttosto interessata ad avere un ruolo nei giacimenti di Cipro, in competizione (intra-Nato) con la Grecia.

Con le navi turche tra quelle acque ricche di materie prime energetiche fossili – che con la guerra ucraina hanno ritrovato una centralità prima marginalizzata dalle volontà/necessità green – si muovono quelle russe. Nei giorni scorsi sulla stampa italiana hanno fatto molto clamore le notizie che sottolineavano la presenza di diverse unità navali del Cremlino nell’Adriatico, ma la Marina monitora costantemente certi movimenti, con cui da tempo Mosca mostra la propria bandiera in quelle rotte.

“Il dispiegamento navale russo nel Mediterraneo in concomitanza con l’avvio dell’offensiva contro l’Ucraina ha registrato il numero, senza precedenti, di ben 18 unità, più due sottomarini”, spiega il docente italiano. A fronte di questo trend, già avviato da Mosca nel 2013 con il ripristino di una task force navale permanente per il Mediterraneo e alla luce della sempre maggiore assertività in campo navale della Turchia, “il nostro Paese – continua – è chiamato a fare scelte coerenti per potenziare e adeguare al livello di ambizione il nostro strumento militare, compresa la capacità di land strike che altre marine, come quella dell’Algeria, già hanno. Il Mediterraneo allargato è l’area dove si concentrano i nostri interessi vitali ed è il quadrante dove sono dispiegate le nostre forze armate”.

Spostandosi verso nord-nordest in questa carrellata – che passa anche dall’impegno diretto in Medio Oriente, dove l’Italia è per esempio alla guida della Nato Mission in Iraq – non può inoltre mancare la questione balcanica. Come dimostrano le recenti movimentazioni di armamenti, la situazione tra Serbia e Kosovo è tutt’altro che risolta, e forse nemmeno acquietata. La potenzialità esplosiva di una crisi in quell’area che confina con l’Italia è per il nostro Paese un problema di primissimo piano sulla sfera internazionale, anche perché rischia l’innesco di un effetto domino all’interno del quale vari player rivali hanno mosso le proprie pedine.

“Bisogna evitare che la questione delle targhe, che oggi è una battaglia dal forte valore simbolico e politico tra Serbia e Kosovo, si trasformi in narrazione aggressiva con il rischio di sfociare in pericolosi atti di violenza e motivo di confronto tra potenze esterne”, aggiunge Bressan. “Il ruolo e l’imparzialità di KFOR, a lungo comandata da Generali italiani, così come la presenza dei nostri militari è stata fondamentale in questi anni per garantire un ambiente sicuro e protetto, così come la libertà di movimento per tutto il popolo del Kosovo. Il nostro Paese deve sostenere gli sforzi dell’Unione Europea, nell’ambito del dialogo Belgrado – Pristina e degli Stati Uniti, nella normalizzazione dei rapporti tra Serbia e Kosovo per stabilizzare una regione, quella dei Balcani occidentali, che si pone come cerniera tra il Fianco Orientale e il Fianco Sud della NATO”.

In definitiva, nel Mediterraneo diverse forme di tensione sobbollono, col rischio di sovrapposizioni visto la limita estensioni del bacino. Attori interni ed esterni muovono le proprie carte, nel tentativo di capitalizzare da quella tentata stabilizzazione tattica, ma con in mente l’opzione di trovare i propri interessi anche se essa dovesse saltare e caoticizzarsi. Ragion per cui per Roma è cruciale tenere massima l’attenzione su ogni singola evoluzione, adesso più che mai.

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