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Jcpoa, l’Iran chiede gli ultimi ritocchi. Gli Usa accetteranno?

Ritocchi alla bozza di ricomposizione dell’accordo nucleare chiesto dall’Iran. Ora tocca a Washington decidere se accettare o meno quelli che sembrano cavilli, mentre da Teheran si muovono le forze contro la stabilizzazione. L’accoltellamento di Rushdie, i piani contro Bolton e Pompeo, gli attivisti nel mirino

Il destino del Jcpoa è adesso nelle mani degli Stati Uniti, perché attorno a mezzanotte l’Iran ha inviato la risposta richiesta dall’Ue — in qualità di coordinatore dei colloqui che il sistema negoziale “5+1” ha tenuto per oltre un anno — sulla bozza presentata per ricomporre l’accordo che congela il programma nucleare della Repubblica islamica — accordo siglato nel 2015 e messo in stallo dal ritiro unilaterale ordinato dall’amministrazione Trump nel 2018.

L’Iran ha ancora delle riserve tuttavia, non fornisce una risposta definitiva sull’accettazione o il rifiuto, e questo fa pensare che serviranno dei colloqui aggiuntivi che si porteranno avanti oltre la data di lunedì 16 agosto, precedentemente fissata come deadline. I diplomatici di Gran Bretagna, Francia, Germania, Russia, Cina e Stati Uniti (il “5+1”) hanno tenuto negoziati intermittenti con l’Iran a Vienna per 16 mesi nel tentativo di rilanciare l’accordo sul nucleare iraniano del 2015, o Piano d’azione congiunto globale (Jcpoa), come viene ufficialmente chiamato l’accordo.

La risposta iraniana si concentra principalmente sulle questioni in sospeso relative alle sanzioni e alle garanzie sull’impegno economico. Negli ultimi mesi, l’Iran ha continuamente chiesto di poter raccogliere i benefici economici di un accordo ripristinato.

Diverse fonti che hanno letto la risposta iraniana si dicono ottimiste riguardo alle osservazioni iraniane. Che per altro al momento non sono pubbliche, e anche questo fa sperare che Teheran non voglia strumentalizzare la propria risposta. Si tratterebbe di suggerimenti di minore importanza, la cui soluzione sarebbe fattibile  tramite ritocchi limitato al testo europeo, che riguardano soprattutto quelle garanzie economiche.

Sono gli Stati Uniti a dover ora decidere se accettare o meno questi cambiamenti a una bozza che teoricamente era data per definitiva. Washington, come dichiarato in precedenza dall’inviato speciale Robert Malley, firmerà su indicazione del presidente Joe Biden solo un testo coerente con gli interessi nazionali statunitensi.

Mentre Teheran è sembrata per diverso tempo allungare i tempi delle trattative, anche con questioni laterali e non accettabili per Washington (come la declassificazione dalle liste terroristiche delle Sepâh), anche col fine tattico di procedere all’arricchimento e presentarsi con una maggiore forza negoziale, stavolta la risposta sembra essere puntuale, e mirata.

L’Iran chiede garanzie economiche su cui gli Stati Uniti potrebbero effettivamente offrire maggiore chiarezza e conforto, con proposte costruttive sul linguaggio che potrebbero colmare le lacune nel testo. Non sono richieste che riguardano il futuro dell’accordo (ossia non chiedono impegni sul fatto che in futuro altre amministrazioni non scelgano di sfilarsi in forma unilaterale di nuovo, che per l’attuale amministrazione sarebbe impossibili garantire).

La risposta iraniana non conterrebbe inoltre ulteriori richieste in merito all’indagine dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Iaea) sull’origine delle molteplici tracce di materiale nucleare che gli ispettori dell’Iaea hanno trovato in vari siti in Iran negli ultimi anni. È uno degli ultimi nodi superati: Teheran si era opposta all’indagine e insiste sul fatto che l’accordo nucleare potrà essere ripristinato solo se questa sarà chiusa, una volta per tutte.

L’Ue ha elaborato una proposta che permetterà che ciò avvenga se l’agenzia confermerà che l’Iran ha fornito risposte credibili sull’origine delle tracce di uranio prima del cosiddetto reimplementation day, il giorno in cui l’accordo nucleare entrerà in vigore. Ma la proposta consentirebbe anche all’Iran di bloccare il reimplementation day, se l’indagine dovesse rimanere aperta.

Le osservazioni firmate dal ministro degli Esteri iraniano, Hossein Amir-Abdollahian sono giunte mentre il Consiglio supremo di sicurezza nazionale iraniano teneva una riunione straordinaria lunedì pomeriggio, presieduta dal presidente iraniano Ebrahim Raisi. Secondo Nour News, un sito web collegato al Consiglio, il capo negoziatore nucleare iraniano, Ali Bagheri Kani, ha presentato una relazione dettagliata sui colloqui nucleari. Il Consiglio supremo di sicurezza nazionale è l’organo della Repubblica Islamica che discute e formalizza le decisioni sul Jcpoa.

Questa fase semi-conclusiva, di affinamento del testo di accordo, avviene in un momento particolare, in cui dall’Iran escono segnali ambigui. L’aumento dei presunti complotti omicidi legati al regime iraniano, scoperti dal governo statunitense, ha sollevato interrogativi sulla minaccia e sulle capacità di Teheran all’interno dell’America.

Pochi giorni fa, il famoso scrittore Salman Rushdie è stato gravemente ferito dopo essere stato accoltellato mentre parlava dal palco della Chautauqua Institution, nello stato di New York: secondo informazioni esclusive ottenute da Vice News, l’autore sarebbe un  giovane fanatico khomeinista di origini libanesi con collegamenti con il Sepâh (il corpo militare teocratico che risponde alla Guida Suprema). Mercoledì scorso, il dipartimento di Giustizia ha accusato Shahram Poursafi, identificato da funzionari statunitensi come un membro del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche dell’Iran (il Sepâh), di un complotto per assassinare l’ex consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton e l’ex segretario di Stato americano Mike Pompeo, due falchi anti-iraniani dell’amministrazione Trump. Il mese scorso, l’FBI ha dichiarato che l’attivista iraniano-americana Masih Alinejad era l’obiettivo di un complotto di Teheran per rapirla dalla sua casa di Brooklyn.

Come ha spiegato all’emiratino The National Holly Dagres, senior fellow dell’Atlantic Council, l’aumento dei presunti attacchi iraniani ha una ragione direttamente legata alla situazione interna di Teheran: “Alla fine di giugno, il leader supremo iraniano, l’ayatollah Ali Khamenei, ha pronunciato un discorso controverso in cui ha minacciato una violenta repressione del dissenso, simile a quella che abbiamo visto nel 1981, quando ci furono esecuzioni e arresti di massa nel Paese. Questo ha dato all’apparato di sicurezza la benedizione per attuare in modo aggressivo una repressione su larga scala del dissenso non solo in patria, ma probabilmente anche all’estero”.

La retorica del leader supremo è stata accompagnata da una scossa nel braccio di intelligence dell’Irgc (acronimo internazionale del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche). Hossein Taeb, che è stato il capo dell’intelligence dal 2009 fino a giugno, è stato improvvisamente sostituito dopo numerosi “incidenti” — assassinii, attacchi informatici e sabotaggi all’interno dell’Iran — che hanno avuto luogo con successo e sono stati incolpati da Israele, aiutato dagli Stati Uniti. Mohammad Kazemi, nuovo capo delle operazioni di spionaggio del Sepâh, vuole dimostrasi efficiente.

Il Corpo è l’entità interna all’Iran — tra l’altro uno stato nello stato — che più si opposta, da sempre, al Jcpoa, considerato un accordo, ossia un cedimento, con i nemici occidentali (su tutti gli Usa). Per ragioni di interesse (economico e ideologico) hanno sempre intralciato le operazioni di negoziato prima e i tentativi di ricomposizione dopo. È del tutto plausibile che vari contesti si sommino in questo momento. Anche per questo il parte della leadership iraniana sta preparando l’opinione pubblica sostenendo che l’accordo che verrà firmato sarà forte — mentre la narrazione descrive quello precedente come debole.

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