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Salari, lavoro, flessibilità. Su cosa puntare in campagna elettorale secondo Bonanni

La campagna elettorale può essere l’occasione per riprendere un rapporto sinora compromesso con i lavoratori con una proposta complessiva che superi il trentennio orribile salariale per rispondere anche alla ulteriore erosione del reddito provocata dalla inflazione. Il commento di Raffaele Bonanni, ex segretario Cisl

Siamo in piena campagna elettorale e molti si chiedono: c’è uno schieramento politico che  può affermare di rappresentare oggi il lavoro in chiave moderna, mandando in soffitta gli stereotipi superati e dannosi della sua visione ideologica? L’area del lavoro dipendente è ancora molto vasta, ma appesantita ed esasperata da molti problemi insoluti, ed è facile preda di imbonitori, come è già accaduto in altre epoche storiche.

I salariati in Italia sono circa 26 milioni, e nella storia della Repubblica, hanno avuto una grande importanza e influenza sulle scelte della politica e dei governi. Dalla Liberazione ai primi anni del nostro secolo, soprattutto i partiti che si dichiaravano progressisti, nei loro programmi e nelle loro decisioni, davano priorità alle esigenze del lavoro. Ma nel corso degli anni, quelli della cosiddetta Seconda Repubblica, non sono stati più centrali; sono stati prima inclusi nella tematica generale della produzione del lavoro, poi con il passare del tempo ed arrivando ai giorni d’oggi, è calato un pesante sipario.

Sarà perché nel campo progressista è troppo diversa la valutazione tra conservatori e riformatori, sarà che la natura della sinistra è profondamente cambiata e trova il suo nuovo modo di rappresentarsi nell’ambientalismo (spesso fuori luogo) e nelle frontiere delle cosiddette battaglie civili, cosicché i temi del lavoro sono diventati la cenerentola tra i problemi italici. La destra dal canto suo è in tutt’altre cose affaccendata, salvo un piccolo segmento delle destre estreme che interpretano i nodi del lavoro non troppo diversamente dalla sinistra conservatrice.

Insomma il lavoro industriale e dei servizi, che pure rappresenta grande parte dei pilastri economici su cui può contare il Paese per il proprio avvenire, non rappresenta più la prima preoccupazione della politica italiana. D’altronde le aree del populismo di sinistra e di destra, presenti come non mai nelle assemblee elettive nazionali e locali, quando si rapportano con lavoratori ed imprese lo fanno prevalentemente offrendo bonus, ma non sono interessati all’efficienza dei fattori dello sviluppo. Anzi non di rado favoriscono soluzioni demagogiche disastrose. Ed proprio in questo contesto che la condizione dei lavoratori è diventata peggiore di prima a causa della compromissione dei fattori dello sviluppo e dell’aumento vertiginoso del fisco sui salari medi.

I salari bassi sono la conseguenza della situazione sopra descritta, condizionata anche dalla larga ipoteca che esercitano le componenti conservatrici del sindacato sulla contrattazione collettiva, intente a ritardare lo sviluppo dei criteri di governo delle politiche del lavoro e del welfare compatibili con le nuove ragioni delle odierne produzioni. È allarmante che i salari italiani abbiano subito dal 1990 ad oggi una riduzione del 2,9%, mentre i salari tedeschi nello stesso periodo sono cresciuti del 37,7%, quelli francesi al 31,10%, quelli polacchi il 96,5%. Persino in Grecia sono cresciuti addirittura il 30,5% e in Spagna il 7%.

La campagna elettorale può essere l’occasione per riprendere un rapporto sinora compromesso con i lavoratori con una proposta complessiva che superi il trentennio orribile salariale per rispondere anche alla ulteriore erosione del reddito provocata dalla inflazione. Innanzitutto per ridurre le tasse sui salari medi su cui poggia ogni peso provocato dalla elusione ed evasione di altri soggetti; tasse zero sul salario di produttività per dare il segno forte che gli italiani per guadagnare di più di più devono produrre meglio e di più; superamento nei contratti collettivi nazionali dell’appiattimento retributivo  preteso sinora dall’idea ingiusta e pedagogicamente sbagliata del salario uguale per tutti a prescindere dai meriti e professionalità; retribuire di più il lavoro flessibile e dotarlo di un welfare rafforzato per evitare ingiustizie; aprire la stagione contrattuale protesa a regolare i diritti e doveri di chi lavora in regime di telelavoro e smart working a partire dalla valutazione del salario non più legato all’orario ma alla qualità e quantità dei carichi di lavoro.

Insomma ai dannosi teorici della precarietà bisogna rispondere con nuovi propositi e opere per dimostrare che la flessibilità, sempre più necessaria nella organizzazione del lavoro, diventa precarietà quando ad essa si vogliono applicare regolazioni normative del passato. I “flessibili” dovranno essere pagati meglio persino di coloro che non lo sono. Essi diventano precari perché non sono pagati bene e sostenuti con un welfare progettato per loro. Sono convinto che il dibattito di questa campagna elettorale potrà contribuire a far venire alla luce un nuovo modo di concepire e sostenere il lavoro italiano. Questo molti elettori aspettano da tempo.


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