Skip to main content

L’orrenda legge elettorale italiana tra alleanze e accordi

Più estesa sarà la rete, maggiori le probabilità di una pesca miracolosa. Quindi più larghe ed intimamente contraddittorie le coalizioni, più a portata di mano la possibile vittoria. Ed ecco allora mettere insieme la pace e la guerra, il termovalorizzatore e il green più spinto, la Russia e la Nato. L’analisi di Gianfranco Polillo

Dal punto di vista della politica politicante, non c’è dubbio alcuno. Hanno ragione sia Nicola Fratoianni che Angelo Bonelli. E di conseguenza hanno torto coloro che si oppongono ad assegnare loro un posto a tavola. Ovviamente il più deciso è stato Carlo Calenda, che ha condotto una strategia che, alla fine, dal suo punto di vista, si è dimostrata vincente. Mentre nella peste è rimasto Enrico Letta. Assediato dalla sinistra del suo partito, con alla testa Andrea Orlando, Goffredo Bettini, e lo stesso Nicola Zingaretti, che masticano amaro.

Ma perché i primi due hanno ragione? Perché i meccanismi elettorali sono tutt’altro che indifferenti nell’assegnare la vittoria. Vecchio insegnamento del marchese de Condorcet, illuminista, rivoluzionario francese della prima ora, poi finito in carcere vittima delle purghe di Robespierre. E allora, per spiegare l’arcano, bisogna partire da questa brutta, anzi orrenda, legge elettorale, la cui finalità è creare due diverse e contrapposte “accozzaglie”. Per poi assegnare all’una o all’altra la palma della vittoria.

Alla fine, almeno sulla carta, vincerà lo schieramento che avrà dilatato al massimo lo spettro della sua rappresentanza politica. Tutto e il contrario di tutto: questa dovrebbe essere la parola d’ordine che ispira il frontrunner. Vale a dire il leader di ciascun schieramento. La ragione va ricercata nel meccanismo di assegnazione dei seggi. Che trasforma i voti ricevuti in scranni parlamentari. E, quindi, nel risultato finale.

La legge che ci accompagnerà alle urne il 25 settembre, al di là dei dettagli, assegna il 37 per cento dei seggi (147 alla Camera e 74 al Senato) con un sistema maggioritario a turno unico in altrettanti collegi uninominali. Vince chi prende un voto in più. Il 61% dei seggi (rispettivamente 245 e 122) è ripartito proporzionalmente tra le coalizioni e le singole liste che abbiano superato le previste soglie di sbarramento nazionali. Il rimanente 2 per cento (8 deputati e 4 senatori) è destinato al voto degli italiani residenti all’estero e viene assegnato con un sistema proporzionale che prevede il voto di preferenza.

L’elettore potrà esprimere il proprio voto sia tracciando un segno sul simbolo di una lista: in questo caso il voto si estende automaticamente al candidato nel collegio uninominale che quella lista sostiene; sia sul sul nome del candidato del collegio uninominale da questa sostenuto. In questo secondo caso, tuttavia, se indica anche la lista di riferimento, il voto si trasferisce anche nel proporzionale. Altrimenti, in mancanza di altri riferimenti, il voto viene diviso tra le diverse liste che appoggiano il candidato, in base ai voti che ognuna ha complessivamente ottenuto nel collegio in questione. Di conseguenza, non è ammesso, pena l’annullamento della scheda, il voto disgiunto.

Ovvie le conseguenze: più estesa sarà la rete, maggiori le probabilità di una pesca miracolosa. Quindi più larghe ed intimamente contraddittorie le coalizioni, più a portata di mano la possibile vittoria. Ed ecco allora mettere insieme la pace e la guerra, il termovalorizzatore e il green più spinto, la Russia e la Nato. Tante ottime esche per catturare pesci diversi, indispensabili per quel fritto misto, che sarà poi il risultato definitivo della competizione elettorale.

E il governo del Paese? L’ultima delle preoccupazioni. Altrimenti quel mostro indigesto sarebbe stato da tempo trasformato in qualcosa di più decente. Il che la dice lunga sull’interesse reale dei principali partiti politici italiani. Ai quali interessa vincere, non governare. Anzi, questa fastidiosa incombenza è meglio lasciarla ad altri. Se la “barca va”, come si diceva una volta, non serve darsi da fare. Se invece dietro l’angolo spunta la crisi, allora vi sarà sempre un Mario Draghi o chi per lui, pronto ad essere richiamato in servizio.

Sono così evidenti le controindicazioni di sistema. Il deficit riformatore, che da decenni marca la società italiana, altro non è che il figlio di questo andazzo. Ministri più o meno improvvisati, il più delle volte veri e propri ostaggi delle modeste burocrazie ministeriali. Frutto di una selezione di base, la collocazione in lista, dovuta ad un cursus honorem politicienne, che poco ha a che vedere con l’esercizio delle successive funzioni. Ed ecco allora che lo stesso personaggio può svolgere, indifferentemente, il ruolo di guardasigilli o ministro del lavoro e delle politiche sociali. Oppure di Ministro dello sviluppo economico e quello degli Esteri.

Si dirà: la stessa cosa capita negli altri Paesi europei. Ma non è vero, non solo perché i sistemi elettorali sono diversi. Ma perché in Francia, c’è l’Ena (École nationale d’administration), il tratto distintivo della stragrande maggioranza della classe dirigente. In Germania la definizione del programma di governo richiede settimane di trattative ed un livello di dettaglio che in Italia sarebbe impensabile. Elementi che esaltano la funzione di governo, oltre quei meccanismi istituzionali – il semi-presidenzialismo o la sfiducia costruttiva – in grado di disinnescare crisi immotivate.

Questa, invece, in Italia è la patologia del sistema, che discende direttamente dalle caratteristiche della legge elettorale. Franco Turigliato, che abbatte il governo Prodi e provoca la fine anticipata della legislatura, non agisce per capriccio. Ma in quanto rappresentante di un movimento da connotati fortemente pacifisti ed anti-capitalistici. Nei confronti del quale, con una certa logica, si sente responsabile. Insomma sebbene la Costituzione (articolo 67) stabilisca il divieto del “mandato imperativo” la legge elettorale, nei fatti, lo ha rafforzato, rendendo il singolo parlamentare non partecipe della coalizione al quale ha aderito, ma prigioniero della lista che ne ha garantito l’elezione.

Episodi che, nel complicato mondo italiano delle rendite, sono destinati ad avere una latitudine molto estesa. I tassisti, i balneari e via dicendo hanno eletto, sia alla Camera che al Senato, propri rappresentanti: pronti a combattere affinché determinati privilegi, o presunti tali, risultino inattaccabili. Perché se ciò non dovesse avvenire, la loro successiva rielezione sarebbe messa in forse. Clientes e patronus, come nell’antica Roma.

Stando così le cose, siamo di fronte ad una situazione definitivamente compromessa? Staremo a vedere. Ci conforta solo l’idea dell’estrema volatilità, nemmeno fossimo di fronte a un titolo azionario, dell’elettorato. Che potrebbe reagire in modo imprevedibile, come già è accaduto nelle più recenti occasioni. Un colpo di spugna destinato a cancellare molto più di una cattiva abitudine. Potrebbe succedere. E allora, con buona pace delle vedove inconsolabili di Giuseppe Conte, sarebbe il lascito migliore del governo Draghi.


×

Iscriviti alla newsletter