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Lupi guerrieri, media e influencer. Così la Cina nega il “genocidio” degli uiguri

La diplomazia statunitense ha diffuso un documento sulle tattiche che Pechino mette in campo per influenzare il dibattito online e schiacciare le posizioni occidentali sullo Xinjiang. L’Italia è stata un laboratorio in occasione del Covid-19. Ecco perché

La Cina sta usando i suoi diplomatici “lupi guerrieri”, media stranieri e privati oltre a influencer sui social media per “inondare” il dibattito online e manipolare il racconto sullo Xinjiang, regione fondamentale per la Via della Seta e al centro di tensioni internazionali per il ruolo nella catena di approvvigionamento del fotovoltaico e per le violazioni dei diritti umani della minoranza uigura a opera delle autorità del Partito comunista cinese. È quanto scrive il dipartimento di Stato americano in nuovo rapporto curato dal Global Engagement Center e diffuso nelle scorse ore. Il documento evidenzia quello che secondo l’’amministrazione Biden è un piano coordinato su larga scala da parte di attori diretti o affiliati al governo cinese per “dominare il discorso globale sullo Xinjiang” e “screditare le fonti indipendenti che riferiscono” sul trattamento dell’etnia uigura nella regione. In particolare, l’obiettivo è marginalizzare le narrazioni di quello che gli Stati Uniti hanno definito “genocidio” degli uiguri, un’accusa che Pechino ha ripetutamente negato.

Tra le tattiche utilizzate dal governo cinese ci sono: un gruppo di oltre 200 influencer di Paesi terzi su piattaforme di social media occidentali per raggiungere un pubblico internazionale giovane in almeno 38 lingue e con una portata media di 309.000 follower; esternalizzazione delle operazioni in lingua straniera a società private di marketing e media (per esempio, per creare video che ritraggono gli uiguri a sostegno del governo cinese, poi amplificati da una rete di “account non autentici” su Twitter e YouTube); 2 milioni di cittadini cinesi e altri 20 milioni di “volontari civili della rete” part-time per raggiungere il pubblico interno cinese e le comunità della diaspora di lingua cinese; diplomatici cinesi “lupi guerrieri” per negare e deviare aggressivamente le critiche sulle piattaforme di social media occidentali.

Le vaste campagne di disinformazione sostenute dallo Stato cinese hanno preso di mira anche altri argomenti, tra cui le proteste di Hong Kong del 2019 e le origini della pandemia di coronavirus. L’Italia è stata in questo senso un laboratorio. Basti pensare a Hua Chunying, portavoce del ministero degli Esteri di Pechino. Il 15 marzo 2020, all’inizio della pandemia, via Twitter aveva alimentato la fake news degli italiani che dai balconi avrebbero cantato “Grazie, Cina”. Un’operazione, che, come rivelato da Formiche.net, poteva contare su un esercito di bot sui social per rilanciare i contenuti pro Pechino e che, come spiegava Pagella Politica, si inseriva “in quella che sembra essere una più larga operazione da parte di Pechino per minimizzare le possibili responsabilità del governo cinese nella diffusione iniziale del Covid-19 e per veicolare il messaggio che la Cina venga apprezzata all’estero per come ha gestito, e sta gestendo, l’emergenza coronavirus”.

Per gli Stati Uniti e il resto dell’Occidente gli sforzi per combattere la disinformazione online non sono privi di rischi legati alla tutela della libertà di parola. Un ruolo fondamentale viene giocato dalle piattaforme di social media. Queste “devono urgentemente cambiare il loro modo di pensare e passare dall’eliminazione di queste campagne attraverso un approccio difensivo ‘acchiappa la talpa’ a una posizione più preventiva e proattiva”, hanno scritto a giugno i ricercatori dell’Australian Strategic Policy Institute. Una necessità che le elezioni imminenti in Italia e negli Stati Uniti non fanno che rendere ancor più evidente.

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