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Draghi al Quirinale. Il jolly che serve a Meloni per governare

Considerata la caotica situazione internazionale presente e del prevedibile futuro, se Giorgia Meloni e con lei il centrodestra tutto intendono non solo costituire un governo solido, ma rimanere al governo del Paese, è necessaria una qualche “garanzia”, ovvero un qualche garante, di ben altra portata. Il commento di Luciano Bozzo, professore di Relazioni internazionali e studi strategici dell’Università di Firenze

Le recenti dichiarazioni di Silvio Berlusconi su un’eventuale riforma costituzionale in senso presidenzialista successiva al da lui auspicato successo del centrodestra nelle prossime elezioni politiche hanno scatenato inevitabili, forti polemiche. È in particolare il riferimento alle dimissioni del Presidente Mattarella, ritenute dal leader di Forza Italia necessarie una volta che fosse approvata una simile riforma, ad aver suscitato le reazioni di segno contrario più nette.

Berlusconi ha rapidamente smentito l’interpretazione data alle sue parole, ma a prescindere da quale ne sia l’interpretazione “autentica”, l’intervento sollecita una riflessione e, forse, adombra un suggerimento.

Se i risultati della consultazione elettorale del prossimo 25 settembre confermeranno la correttezza dei sondaggi di queste ultime settimane Giorgia Meloni potrebbe diventare la prima donna presidente del Consiglio dei ministri. È certamente inutile aggiungere, come infinite volte è stato ripetuto nelle più diverse sedi, che piaccia o meno ciò rappresenta un problema, e non di poco conto. Un problema che ha origine fuori dai confini nazionali. In ragione della dimensione economica, della storia post-bellica, della collocazione geografica e della rilevanza politico-strategica, unite alle note fragilità strutturali interne, l’Italia, quanto e più di altri attori internazionali di dimensioni simili, è soggetta e non da oggi a vincoli esterni che ne condizionano tanto la politica estera e di sicurezza quanto quella interna.

La storia del Paese, nei quaranta anni della guerra fredda come nell’età post-bipolare, offre numerose conferme di come quelle scelte di politica interna ed estera che non hanno tenuto conto di questi vincoli abbiano prodotto esiti negativi per il Paese, a volte persino drammatici. Al contrario, scelte di allineamento o intelligentemente e a volte astutamente, quando non cinicamente, compromissorie rispetto a quell’insieme di limiti hanno quasi sempre prodotto risultati positivi. Anche in questo caso gli esempi potrebbero essere numerosi, a iniziare dalle maggiori scelte di politica internazionale compiute dal Paese.

La teoria sistemico-strutturalista delle relazioni internazionali insegna, non a caso, che la struttura del sistema internazionale, definita dalla distribuzione del potere tra le grandi potenze del sistema come dalla natura delle relazioni economiche e finanziarie, pone un set di vincoli e di incentivi che comunque, sebbene in misura maggiore o minore, influenza il comportamento degli Stati. In altri termini, nel corso del tempo gli Stati “imparano” come agire entro il sistema internazionale, perché puniti quando col loro comportamento non rispettano quei vincoli e premiati in caso contrario.

Che in quest’ottica un futuro governo di centrodestra a guida Meloni vada incontro a evidenti problemi è cosa scontata e confermata in particolare dall’esperienza vissuta dall’Italia a partire dalla caduta nel 2011 del governo Berlusconi. Oggi a Washington come a Bruxelles, Berlino e Parigi, ma anche in quel “luogo” immateriale che sono i mercati finanziari, un futuro governo di centrodestra è visto con preoccupazione. La leader di Fratelli d’Italia è evidentemente conscia del problema e da tempo ha intelligentemente iniziato a adottare alcune parziali contromisure. La posizione assunta da Fratelli d’Italia sulla guerra in Ucraina e sull’azione di politica estera italiana in tema, le reiterate dichiarazioni di fedeltà atlantica, la prudenza dimostrata verso le istituzioni europee, l’intervista rilasciata a Fox News in buona lingua inglese, le dichiarazioni trilingue indirizzate alla stampa estera sono altrettanti esempi delle contromisure di cui sopra.

Ad esse è possibile, oltre che auspicabile, si aggiunga una scelta il più possibile oculata del futuro personale di governo in caso di vittoria elettorale del centrodestra. È tuttavia evidente che tutte queste e altre simili iniziative, passate e future, non saranno sufficienti a rassicurare gli attori esterni circa l’affidabilità del governo italiano e il rispetto dei vincoli esterni. Considerata la caotica situazione internazionale presente e del prevedibile futuro, se Giorgia Meloni e con lei il centrodestra tutto intendono non solo costituire un governo solido, ma rimanere al governo del Paese, è necessaria una qualche “garanzia”, ovvero un qualche garante, di ben altra portata.

C’è solo una figura e solo se collocata in un certo ruolo istituzionale che potrebbe svolgere con sufficiente efficacia tale ruolo. La figura è quella di Mario Draghi e l’istituzione la Presidenza della Repubblica. Nel suo lungo cursus honorum l’attuale presidente del Consiglio ha acquisito una credibilità presso i governi, le istituzioni estere e i mercati che più avrebbero necessità di rassicurazione e garanzie, ove si verificasse lo scenario di politica interna che oggi pare possibile se non probabile, che non ha pari in Italia.

Il presidente Draghi, che certamente ha già ricevuto l’endorsement di Washington per la candidatura a segretario Generale della Nato una volta che fosse in qualche modo superata la fase peggiore della crisi in Ucraina, potrebbe certamente rinunciare a questa prospettiva in vista dell’elezione alla Presidenza della Repubblica. Nel momento in cui Giorgia Meloni assumesse il ruolo di premier, e a prescindere dai più o meno credibili e realizzabili disegni di revisione della carta costituzionale, sarebbe così irrealistico pensare a dimissioni, concordate e comunque motivate, del presidente Mattarella e a nuove elezioni presidenziali che portassero Draghi al Quirinale?

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