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Il riformismo e quell’intervista a Bettini. Scrive Polillo

I giovani non hanno bisogno di altri sussidi. Di assistenza caritatevole. Ma di lavoro. Quindi di politiche che contribuiscano a rimettere in moto quell’ascensore sociale, fermo da troppo tempo. Che il disinteresse generale delle principali forze politiche italiane ha mantenuto tale. Il commento di Gianfranco Polillo

Nella sua ultima lunga intervista a Maria Teresa Meli, prima pagine del Corriere della Sera, Goffredo Bettini, esponente della sinistra Dem, si sofferma sul riformismo. In polemica aperta con Bonaccini ritiene che: “Avremo il tempo di discutere. Riformismo è una parola tradita, abusata, fraintesa. Sono tutti i riformisti! Ma il riformismo vero è solo una cosa: accorciare le distanze tra il privilegio e il dolore sociale. Il resto francamente sono chiacchiere da talk-show”.

In apparenza nobile posizione. Che vorrebbe, in qualche modo dimostrare come quella parola sia stata, appunto, violata. Del resto se si ascoltano i discorsi di tanti Dem, è facile vedere come l’asse centrale dei loro ragionamenti sia solo ed esclusivamente quella della giustizia sociale. A prescindere si potrebbe aggiungere. Lo stesso Bettini, nell’ esemplificazione del suo ragionamento, porta acqua a quel mulino. “Una tassa di successione sui grandi patrimoni, quelli oltre i 5 milioni di euro, per sostenere l’avvio di una vita autonoma per i giovani”.

Magari fosse così. Magari bastasse tassare qualche Paperone per risolvere una delle tante anomalie italiane. Lo diciamo a ragion veduta, considerando i dati forniti dalla stessa Commissione europea, nell’ambito delle macroeconomic imbalance procedure. Che mettono in luce, come fino allo scorso anno, il tasso di disoccupazione dei giovani di età compresa tra i 15 ed i 24 anni sia stato, in Italia, tra i più alti dell’Eurozona. Inferiore solo alla Grecia ed alla Spagna. Di cui, tuttavia, il relativo 19 per cento (dati 2020) appartiene alla categoria NEET (Not in Education, Employment or Training). Giovani del tutto disimpegnati, che non studiano e non lavorano. Di cui l’Italia vanta un poco invidiabile primato.

Andranno foraggiati con un sussidio adeguato, secondo la proposta di Enrico Letta, avallata dalla sinistra del partito? Eppure l’esperienza fallimentare, al di là delle buone intenzioni, del reddito di cittadinanza dovrebbe far riflettere. Anche in quel caso si era trattato di un semplice sussidio contro la povertà. Seppur camuffato da incentivo al lavoro. Con la conseguenza di aver alimentato, considerata l’inappropriatezza delle procedure (tutt’altro che un caso), vaste aree di malaffare ed al tempo una carenza nell’offerta di lavoro, dando luogo a tante richieste, da parte delle aziende, rimaste inevase.

Il risultato è stato una spesa pubblica che sfiora i dieci miliardi. Una frattura profonda nell’etica della responsabilizzazione individuale. Alla fine un risultato fallimentare. Una sorta di raggiro. La relativa motivazione come scusa, solo per ottenere un vantaggio politico in termini elettorali, da parte di coloro, ovviamente i 5 Stelle, che dal balcone di Palazzo Chigi ritenevano, masturbandosi, di aver sconfitto la povertà. Che, invece, da allora sempre secondo i dati della Commissione europea, in Italia, è aumentata ad un ritmo superiore a quello degli altri Paesi.

E allora, caro Bettini, i giovani non hanno bisogno di altri sussidi. Di assistenza caritatevole. Ma di lavoro. Quindi di politiche che contribuiscano a rimettere in moto quell’ascensore sociale, fermo da troppo tempo. Che il disinteresse generale delle principali forze politiche italiane ha mantenuto tale. Un’attenzione giusta, ma velleitaria, al welfare; ma ben poco o niente verso l’avvio di quelle riforme, senza le quali è sabbia negli ingranaggi del vivere collettivo. E declino inesorabile verso una società regressiva.

Eccesso di spirito polemico? Basta dare un’occhiata agli anni della Seconda Repubblica. Quell’arrancare sempre agli ultimi posti delle classifiche internazionali, in termini di sviluppo. Quell’incapacità dei due schieramenti contrapposti di trovare, al di là delle necessarie distinzioni, un terreno comune in cui coltivare l’interesse nazionale. Quel fare e disfare la tela ad ogni passaggio di maggioranza parlamentare. Come se il governo precedente altro non fosse stato che la reincarnazione dell’impero del male. E poi vedere, invece, quel che è successo in questi due ultimi anni scarsi. Non con il “Governo dei migliori”, come continua a ripetere Marco Travaglio, gonfio di bile, ma con persone capaci di non soccombere sotto il peso dell’interesse di parte.

Sono questi gli esempi concreti che qualificano il “riformismo vero” di cui non parla Bettini. Il cui compito non è solo quello di “accorciare le distanze tra il privilegio e il dolore sociale”, ma di contenere, nel tempo, questa frattura. Di renderla sempre meno purulenta, fino a farla, se possibile, scomparire. E per farlo non c’è che quella strada indicata, fin dai tempi, di Marx. Quello sviluppo delle forze produttive che sono il requisito per la nascita di una società storicamente superiore. Sviluppo e equa redistribuzione del reddito. Forze produttive e rapporti di produzione. Sono i poli dialettici di una contraddizione che va governata. Senza privilegiare una faccia della medaglia a discapito dell’altra.

Nell’ultimo anno del governo Conte, il debito pubblico italiano è aumentato di oltre 21 punti di Pil, passando dal 134,1 al 155,3. L’incremento più alto che si sia mai verificato dalla fine della Seconda guerra mondiale in poi. Ovviamente si doveva intervenire per combattere le conseguenze economiche e sociali della pandemia da Covid. Ma non ci si venga a dire che non era possibile fare meglio. Cercare di contenere, per quanto possibile, spese non essenziali. Che alla fine qualcuno dovrà comunque rifondere. Rivedere ad esempio il reddito di cittadinanza, per evitare le frodi, oppure scrivere meglio le leggi sul bonus del 110 per cento per l’edilizia. Non è stato nemmeno tentato. Ed ecco allora che quelle “chiacchiere da talk-show”, di cui parla Bettini, assumono un significato ben diverso. Per divenire la cartina al tornasole dell’unico riformismo possibile.

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