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Legati? Salvini e la Russia, tempo di chiarimenti. Scrive Polillo

Esiste un accordo scritto siglato da un partito politico italiano, la Lega, con un partito straniero, Russia Unita. Un accordo destinato a rinnovarsi tacitamente ogni cinque anni a meno che una delle due parti non lo faccia terminare entro sei mesi dalla scadenza. Non risulta che la Lega l’abbia fatto valere, per cui l’accordo è stato rinnovato per altri 5 anni. Nuova scadenza: 2027

Sarà quel che sarà. Al momento è difficile scrivere l’epilogo di una storia – la guerra ibrida di Mosca contro l’Italia – che ha troppi punti oscuri. Gli indizi ci sono tutti. Forse sono addirittura troppi. Quel che manca è ovviamente la certezza di un intervento a gamba tesa, volto a condizionare il voto degli italiani, per imporre quella svolta che Putin non solo sogna, ma ha più volte teorizzato.

Una cosa tuttavia gli elettori possono, anzi devono, pretendere: sapere esattamente da che parte stanno i singoli protagonisti della vicenda politica italiana. Conoscere in anticipo se, con il loro voto, l’asse della politica estera italiana si sposterà verso Washington e Bruxelles oppure verso Mosca e Pechino. E per capirlo devono pretendere un’assoluta limpidezza. Che escluda ogni indeterminatezza o furbesco ecumenismo. O peggio ancora l’alibi di un possibile cerchiobottismo.

Troppa intransigenza? Il fatto è che conosciamo i nostri polli. Nel vecchio contratto che segnò la nascita del governo gialloverde, a firma SalviniDi Maio, si confermava “l’appartenenza” dell’Italia “all’Alleanza atlantica, con gli Stati Uniti d’America quale alleato privilegiato, ma con una apertura alla Russia, da percepirsi non come una minaccia ma quale partner economico e commerciale potenzialmente sempre più rilevante”.

“A tal proposito, – si auspicava – è opportuno il ritiro delle sanzioni imposte alla Russia, da riabilitarsi come interlocutore strategico al fine della risoluzione delle crisi regionali (Siria, Libia, Yemen)… Non costituendo la Russia una minaccia militare, ma un potenziale partner per la Nato e per l’Ue, … nel Mediterraneo” dove “si addensano più fattori di instabilità quali: estremismo islamico, flussi migratori incontrollati, con conseguenti tensioni tra le potenze regionali”.

Di Giorgia Meloni non dubitiamo, per motivi diversi. Nel bene e nel male conosciamo il suo retroterra culturale. E dello stesso mussolinismo, più che del fascismo, gli scritti di Renzo De Felice, nella sua monumentale opera per Einaudi (significherà qualcosa?), hanno messo in chiaro il gioco delle luci e delle ombre. Sono invece gli altri che ci danno da pensare.

Il vitalismo (passato) di Silvio Berlusconi. Quell’idea del “ghe pensi mi“” che per troppo tempo è stata la cifra più apparente che reale del suo modo di governare. E che non ha poi prodotto i risultati sperati. Compreso il tentativo di addomesticare Putin. Finito nel momento in cui la grande crisi – quella dei subprime – aveva cambiato il vento che, negli anni passati, aveva gonfiato le vele della modernizzazione russa.

Per non parlare poi, non tanto della Lega, quanto di Matteo Salvini. La creatura di Umberto Bossi, aveva un radicamento territoriale, che ne restringeva gli orizzonti politici e culturali. Per il senatur contavano solo gli interessi del nord. Da difendere in un modo che più corporativo non si poteva. Anche se alcuni (Claudio Gatti) vedevano in quella prospettiva, a metà strada tra federalismo e secessionismo, una debolezza dottrinaria intollerabile. Possibile preda delle alchimie di una nuova destra arrembante, dai forti legami internazionali.

Ma con Salvini la musica era cambiata. Quella vecchia cultura da strapaese (la corrente letteraria anni ‘20) era stata progressivamente abbandonata in nome di un nazionalismo (“prima gli italiani”) che si poneva in obiettivo contrasto con il mondialismo, allora dominante. Da questo punto di vista, la scelta di Salvini era stata per così dire obbligata. Quando era diventato segretario, nel dicembre 2013, la Lega Nord, alle elezioni di febbraio, aveva superato a stento il 4 per cento: sia alla Camera che al Senato. Con il Pdl oltre il 22 per cento.

Da europarlamentare di lungo corso, per oltre 12 anni a Bruxelles, pur non avendo certo brillato per l’impegno profuso, conosceva le regole elementari. Sapeva che la sponda internazionale era importante. Ma i posti che contavano erano già stati occupati. Forza Italia con il Ppe, il Pd con i socialisti. Per non essere fagocitato dall’uomo di Arcore, doveva smarcarsi. Ed ecco allora la ricerca affannosa di un terzo polo: con l’Ukip inglese, il Fronte Nazionale in Francia, il Partito Popolare Danese e Syriza in Grecia. Ma non solo. A fargli da sponda saranno anche i Paesi del gruppo Visegrad: polacchi, cechi, ungheresi e slovacchi. Oggi su posizioni divaricate e completamente diverse.

Il retroterra culturale da uomo del nord lo aveva aiutato. Nel centrodestra italiano, l’Europa era stata sempre vista come una grande matrigna, pronta a punire partite Iva e pensionati baby. Mentre si rinnovavano le accuse sull’eccesso di regolamentazione. Sparare sul pianista, come nei vecchi film western, era quindi popular. Ed ecco allora che l’esigenza di un diverso posizionamento era finito inevitabilmente con il coincidere con chi, da Mosca, vagheggiava, ma soprattutto voleva, una geopolitica completamente diversa, in grado di porre ai margini l’intero Occidente.

Difficile dire se Salvini si sia reso conto, fin dall’inizio, della parte in commedia che gli strateghi del Cremlino avevano deciso di fargli giocare. La rete, che purtroppo non dimentica, è piena delle sue dichiarazioni avventate, che risalgono all’indomani stesso della sua elezione a segretario generale. Tra le prime iniziative, destinate a far scalpore, (dicembre 2014) la costituzione in Parlamento dell’Associazione Amici di Putin. Con l’invito rivolto a tutti i parlamentari a farne parte. Ed il fine di “dare un contributo affinché si chiuda questa stagione di contrasti che non fanno altro che danneggiare la nostra economia, in un momento già di per sé drammatico, causa crisi”. Refrain che sarà ripetuto in mille altre occasioni.

Da quel momento in poi inizieranno i grandi viaggi. Destinazione principale i Paesi sotto embargo: Corea del Nord, insieme ad Antonio Razzi. Il deputato transfugo da diversi partiti, sodale di Kim Jong-un (settembre 2014). Quindi la Crimea (ottobre 2016) in compagnia di Claudio D’Amico, parlamentare della Lega, ma soprattutto suo Consigliere strategico per le attività di rilievo internazionale. Ed, infatti, era stato lui ad organizzare, nell’ottobre 2014, il primo incontro con Putin. Viaggi che si ripetettero più volte, fino agli infortuni degli incontri del Metropol Hotel di Mosca (la trattativa per una partita di petrolio) e il successivo viaggio abortito, per avvicinare la pace tra Ucraina e Russia, di qualche mese fa.

Nel frattempo non smetterà mai di tacere. Nel 2015, durante il convegno promosso dall’Associazione Lombardia Russia, presieduta da Gianluca Savoini, l’uomo del Metropol, (“Russia e Crimea, due grandi opportunità per le nostre imprese”) si era battuto affinché si fosse riconosciuta l’annessione da parte della Russia della Crimea. E di conseguenza si fosse posto fine alle sanzioni contro l’orso siberiano. Una sorta di ossessione. In passato aveva più volte tuonato: sono costate “oltre 5 miliardi di euro e migliaia di posti di lavoro”.

La cifra gli era stata suggerita da Ernesto Ferlenghi, presidente di Confindustria Russia, secondo il quale “dall’introduzione delle sanzioni, le esportazioni italiane in Russia, che nel 2014 avevano raggiunto i 14,5 miliardi di euro erano ‘diminuite di un terzo’ e del 45 % nei primi tre anni”. Ben più circostanziate e meno drammatiche le cifre indicate nell’ultimo Def del governo Draghi. A causa delle sanzioni, nel periodo 2013-2021 (pag. 50), le esportazioni italiane verso la Russia, sarebbero diminuite di 3,075 miliardi di euro; le importazioni di 2,599. Svantaggio ben più contenuto, come saldo netto.

Che comunque l’Italia abbia subito un danno, molto maggiore sarà quello dopo l’intervenuta invasione dell’Ucraina, è del tutto evidente. Le sanzioni rappresentano ciò che nella letteratura anglosassone si chiama “trade off”: si subisce un danno oggi per avere un vantaggio domani. Che poi questo domani sia quanto mai incerto, si può anche convenire. Ma qual è l’alternativa? Forse la vecchia idea, messa nero su bianco nel vecchio contratto della maggioranza gialloverde, secondo la quale “la Russia” non avrebbe costituito “una minaccia militare”?

Ma i viaggi verso l’Oriente, uno solo a Washington nella speranza delusa di incontrare Donald Trump, spiegano solo in parte. Fanno da cornice a più intensi lavorii, come quelli che portarono alla firma di un trattato che prevedeva lo scambio di informazioni sull’attualità russa e italiana e “sulle relazioni bilaterali e internazionali”, l’organizzazione di convegni e riunioni che coinvolgano i rispettivi parlamentari, e la promozione “attiva” delle relazioni tra i partiti, anche a livello regionale. Quindi la promozione di politiche “giovanili, femminili, culturali e umanitarie”, oltre alla cooperazione economica. Tutto molto generico e fin troppo vago. Era il 6 marzo 2017.

In calce, la firma di Matteo Salvini e quella di Sergey Zheleznyak (responsabile esteri di “Russia Unita”, il partito di Putin). Un patto, quindi, l’unico caso di un accordo scritto siglato da un partito politico italiano con un partito straniero. Un accordo destinato a rinnovarsi tacitamente ogni cinque anni a meno che una delle due parti “non notifichi all’altra entro e non oltre sei mesi prima della scadenza dell’accordo la sua intenzione alla cessazione dello stesso”. Non risulta che la Lega l’abbia fatto valere, per cui l’accordo è stato rinnovato per altri 5 anni. Nuova scadenza: 2027.

Le cose raccontate, tratte con un po’ di pazienza dai giacimenti del web, lasciano ben pochi dubbi sull’esistenza di un legame profondo tra Salvini e Putin. Dai loro rapporti traspare una consonanza di idee, ma anche un legame squilibrato. Il partner junior in un grande studio di avvocati. È vero che la Russia, come lo stesso Salvini ama ripetere, è il Paese più esteso del mondo, ma, se è consentito, l’Italia non ha molto da invidiare. Sia in termini di reddito e di sviluppo economico, per non parlare di cultura. Senza nulla togliere alla storia di quella parte del continente euroasiatico.

E allora come si spiega? Ma in larga misura con lo stile stesso di Salvini. Con la sua relativa “modernità”: il Capitano non usa le tecniche della rete solo per comunicare. Quel linguaggio, quel modo d’essere, si pensi alla moda delle felpe, é qualcosa di più intimo. A differenza di Giorgia Meloni, tanto per fare un paragone, non ha l’identità che nasce da un vissuto profondo, che si è intrecciato con la storia d’Italia. Un bene o un male? Difficile rispondere. È però il segretario di un partito, seppure di stampo per così dire leninista, per cui, alla lunga, il relativo condizionamento non potrà non farsi sentire.



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