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Dalla Siria al Mar Arabico. Cresce il confronto tra Iran, Usa e Israele

Schermaglie militari tra Iran, Usa e Israele dalla Siria al Mar Arabico. Crisi che circonda il dossier del nucleare iraniano, che potrebbe vivere settimane decisive

Due giorni fa, lunedì 29 agosto, la marina ha impedito a una nave della Marina del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche iraniane (l’IRGCN del Sepâh) di confiscare un’imbarcazione di superficie senza equipaggio della Quinta Flotta nel Golfo Arabico. I marinai americani hanno individuato la nave appoggio dell’IRGCN “Shahid Baziar” che rimorchiava un USV Saildrone Explorer, parte di una rete di navi con e senza equipaggio che la flotta gestisce. La nave da pattugliamento costiero “Thunderbolt” della US Navy, insieme a un elicottero del Sea Combat Squadron 26, ha risposto all’incidente e la nave iraniana ha rilasciato l’imbarcazione senza equipaggio e ha lasciato l’area circa quattro ore dopo, nelle prime ore del 30 agosto.

È solo l’ultima delle schermaglie tra Iran e Stati Uniti che hanno contrassegnato questo ultimo periodo. La scorsa settimana chi osserva le dinamiche siriane (sempre interessanti nell’ultimo decennio per definire l’andamento di alcuni affari internazionali) ha per esempio potuto notare un aumento delle attività militari di confronto, che coinvolgono anche Israele.

Miliziani collegati al Sepâh hanno attaccato per due volte avamposti tattico/strategici americani in Siria in risposta a un primo bombardamento israeliano in un deposito di armamenti; la Casa Bianca ha ordinanti altrettanti raid di tit-for-tat (una cosa piuttosto singolare); Israele ha martellato con blitz aerei il territorio siriano per più volte (che invece è quasi routine dal 2013 e che Londra ha recentemente definito “l’unica cosa che funziona in Siria”).

I funzionari americani hanno spiegato che sono stati indotti all’azione dopo essere stati aggrediti in due basi del sud e dell’est siriano con un livello di sofisticazione senza precedenti e di aver reagito per mantenere attiva la deterrenza, temendo che in futuro altri attacchi possano accadere (qualcosa di simile è accaduto col drone navale nel Mar Arabico).

Israele ha colpito aree vicino a Damasco e al porto di Tartus (controllato dai russi), dove si snoda la logistica con cui l’Iran (attraverso le Sepâh, comunemente noti come Pasdaran) fornisce armi sofisticate ad alcune milizie che proteggono il regime siriano. Tra queste in particolare a Hezbollah, che sempre in questi giorni ha fatto sfoggio del set di droni di cui dispone (tutti ricevuto dall’Iran).

L’Iran si è sganciato da ogni responsabilità, sebbene sostenendo i diritti siriani davanti a una presenza americana sul territorio che altera la sovranità di Damasco. La Siria avrebbe chiesto a Teheran di non colpire Israele dal proprio territorio, temendo una reazione troppo dura, ma di usare come punto di sfogo le basi americane presenti nel sud del Paese, verso il confine iracheno, e nella fascia petrolifera orientale della provincia di Deir Ezzor.

Due settimane fa, secondo diverse fonti, ci sarebbe stata una riunione virtuale tra alcuni comandanti dei Pasdaran, i leader di quelle milizie (sciite), e militari siriani. Durante l’incontro il regime assadista avrebbe avanzato la propria richiesta. I comandanti delle forze pro-iraniane hanno concluso che, sebbene l’esercito statunitense sia più forte di loro in Siria e probabilmente risponderebbe, l’amministrazione Biden è in una fase in cui  intende allentare le tensioni nella regione e non avrebbe iniziato una nuova guerra.

Sulla base di questa conclusione, i partecipanti alla riunione hanno deciso di colpire le basi statunitensi in Siria in risposta a ogni attacco israeliano. L’idea di Damasco è di fare in modo che Washington chieda al governo israeliano di interrompere i raid sul territorio siriano iraniano che vanno avanti da nove anni. Colpire le basi americane metterebbe gli USA sotto pressione al punto di poter chiedere a Israele di rinunciare a quella che sente come una priorità strategica?

È molto difficile, visto che gli israeliani considerano quelle operazioni come preventive, perché sono convinti che prima o poi quelle armi che i Pasdaran forniscono a milizie come Hezbollah prima o poi verranno usate contro lo stato ebraico (considerato nemico esistenziale dalla Repubblica islamica e dal raggruppamento sciita internazionale che Teheran guida). “Il regime in Iran è il finanziatore globale del terrorismo nel mondo, questa amministrazione chiede la distruzione dello Stato di Israele dalla mappa. Durante la mia posizione di Capo del Mossad, abbiamo condotto molte operazioni contro il programma nucleare iraniano, incluso nel cuore dell’Iran”, detto l’ex capo del Mossad, Yossi Cohen, parlando a Basilea per un evento in occasione del 125° anniversario del Congresso Sionista Mondiale.

Tanto più adesso, in un momento in cui gli Stati Uniti è vero che vogliono evitare escalation, ma è altrettanto vero che devono fornire rassicurazioni a Israele che le politiche severe contro l’Iran non finiranno anche se verrà ricomposto il Jcpoa. L’accordo sul nucleare iraniano è detestato a Gerusalemme, perché viene visto come una concessione (il sollevamento delle sanzioni conseguente al congelamento del programma atomico) e perché non affronta né il problema delle attività regionali dei Pasdaran (connesse alla diffusione di milizie sciite come forze di influenza in vari Paesi), né si occupa del piano di Teheran per rafforzare il proprio set di missili balistici (in violazione dei dettami dell’Onu).

Se da un lato gli attacchi contro le basi americane possono anche essere letti come un tentativo degli ultra-conservatori iraniani, legati ai filoni più ideologizzati (e connessi all’industria militare) dei Pasdaran, di far saltare il tavolo del Jcpoa; dall’altro la reazione matura ma severa statunitense può essere vista come una forma di rassicurazione davanti ai dubbi di Israele — e dei Paesi del Golfo.

Nei prossimi giorni l’attuale direttore del Mossad, David Barnea, andrà a parlare al Congresso esprimendo ai legislatori di Capitol Hill tutti i dubbi israeliani sull’Iran e sulla ricomposizione del Jcpoa. L’intervento ha una tempistica particolare: tra un paio di mesi si votano le MidTerm, ed è probabile che i Repubblicani riprendano il controllo di entrambe le camere. Una nuova intesa con Teheran a quel punto sarebbe più complessa. “Questo  […] non era buono già quando è stato firmato nel 2015: oggi i pericoli ad essa inerenti sono ancora maggiori, ed è più vicino alla sua data di fine (2025, ndr) e l’Iran si trova in una posizione diversa dal punto di vista tecnologico”, ha commentato domenica 28 agosto il premier israeliano uscente, Yair Lapid.

Nei giorni scorsi il ministro della Difesa israeliano, Benny Gantz, era negli Stati Uniti per incontri alla Casa Bianca (con il consiglio per la Sicurezza nazionale) e al quartier generale del CentCom (a Tampa, in Florida). La presenza di Gantz, le cui quotazioni come prossimo premier crescono, negli Stati Uniti nei giorni di tensione in Siria è un’immagine significativa. A Washington c’è consapevolezza che, con o senza un nuovo accordo sul nucleare con Teheran, è necessario comunque mantenere sul tavolo un’opzione militare contro l’Iran.

La fiammata di scontri dei giorni scorsi ha ricordato come la Siria e il Golfo Persico (di cui il Mar Arabico è il tappo meridionale), fratturata e indebolita da oltre un decennio di guerra civile, continui a fare da terreno fertile per una moltitudine di guerre per procura che coinvolgono Iran, Israele, Stati Uniti, ma anche Russia, Turchia, Paesi del Golfo, milizie sciite terroristiche come Hezbollah e gruppi estremisti sunniti come al Qaeda e Is.



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