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Perché valuto con cautela l’analisi sul Mezzogiorno firmata Svimez

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Senza negare le differenze tra Sud e Nord, non si può più ignorare tuttavia come i settori trainanti dell’industria manifatturiera del Meridione siano componenti fondamentali e di rilievo strategico dell’industria nazionale, in cui sono saldamente integrati. Federico Pirro, Università degli Studi di Bari Aldo Moro e coordinatore scientifico del Cesdim, legge le anticipazioni del rapporto Svimez

Le anticipazioni estive del rapporto della Svimez sull’economia del Mezzogiorno offrono anche quest’anno alcune previsioni sull’andamento del Pil e dell’occupazione che, per quanto utili come punti di riferimento per successive analisi ben più approfondite, dovrebbero tuttavia, a nostro avviso, essere valutate con grande cautela interpretativa per alcune precise ragioni.

In primo luogo, perché non è ben esplicitato il modello econometrico e le sue variabili strutturali che portano gli estensori delle anticipazioni a prevedere determinati andamenti del Pil nelle singole regioni. E poi, come è possibile definire già da ora quale sarà nel 2022 il prodotto interno lordo del Paese, del Mezzogiorno e delle varie regioni se lo stesso Istat non si avventura in previsioni per il terzo e il quarto trimestre dell’anno, non essendo facilmente ipotizzabili i trend di costo dell’energia, domanda interna ed estera, ciclo delle scorte, andamento dell’intera annata agraria e della stagione turistica?

Lo stesso governo, peraltro, a settembre nella Nadef – Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza – dovrà registrare andamenti e formulare previsioni a fine anno probabilmente difformi (in positivo) da quelle del Def della primavera scorsa.

Ma persistono anche altre ragioni che inducono ad assumere con la massima cautela i dati, peraltro sempre negativi della Svimez, una delle quali si richiama alla capacità di spesa del fondi di coesione del ciclo 2014-2020 che le varie regioni del Sud – e i ministeri per la quota di loro competenza – dovranno rendicontare entro il 31 dicembre del 2023. Al riguardo, nello scenario meridionale, la Puglia ormai da anni ha primati nazionali di impiego, grazie all’impegno delle strutture regionali preposte, ragion per cui bisognerebbe comprendere se e come tale capacità di spesa in termini di cassa abbia concorso alle previsioni della Svimez sul Pil delle singole aree meridionali.

Lo scrivente – dopo essere stato per quattro anni componente del consiglio di amministrazione della stessa Svimez – da tempo ormai manifesta un marcato dissenso dalle sue analisi, mentre si riconosce pienamente in quelle della SRM-Gruppo Intesa Sanpaolo che proprio in questi giorni ha presentato le “sue anticipazioni economiche di mezza estate sul Mezzogiorno”.

Una SRM che, in collaborazione con il Cesdim-Centro Studi e documentazione sull’industria nel Mezzogiorno, istituito presso l’Università di Bari e di cui il sottoscritto è coordinatore scientifico, ha presentato il 22 luglio scorso nell’Ateneo barese la più vasta indagine sull’industria manifatturiera nell’Italia meridionale compiuta negli ultimi 30 anni, finalizzata a realizzare un’accurata mappatura delle industrie manifatturiere esistenti nelle 8 regioni del Sud, divise per settori e per fatturati del 2020 (ultimi dati disponibili), o per valori delle produzioni, quando questi ultimi siano risultati noti.

Ora, senza negare in alcun modo il differenziale di dimensioni in termini di unità locali, addetti e di Pil generato dall’apparato manifatturiero del Mezzogiorno rispetto a quello ben più imponente del Nord, non si può più ignorare tuttavia come i settori trainanti dell’industria manifatturiera del Meridione – siderurgia, petrolchimica, chimica di base, up-stream, farmaceutica, automotive, aerospazio, costruzioni ferroviarie, agroalimentare, ict, energia da fonti rinnovabili con tutti i loro grandi stabilimenti – siano componenti fondamentali e di rilievo strategico dell’industria nazionale, in cui sono saldamente integrati. E in tale contesto la Regione Puglia con il suo sistema di incentivazione agli investimenti fra i più avanzati d’Italia – e con il lavoro di eccellenza della tecnostruttura dell’Assessorato allo sviluppo economico – ha concorso ad una salda tenuta del sistema industriale locale, che si è dimostrato non solo resiliente nel 2020, anno dello scoppio della pandemia, ma anche capace di una notevole performance di sviluppo l’anno successivo.

Così come è emerso dalla grande ricerca di SRM e Cesdim che – accanto ai grandi plant dei comparti prima richiamati – sempre più fitto è diventato il tessuto delle Pmi in tutte le regioni dell’Italia meridionale, anche in quelle con una base manifatturiera minore come Molise, Calabria e Sardegna.

Tutta questa vivacità del tessuto manifatturiero nell’Italia meridionale – sia delle grandi aziende che vi sono localizzate, e sia dei tanti cluster di Pmi che vi operano anche in zone interne, remote e lontane dalle aree industriali maggiori e più note, come ampiamente documentato nel volume della SRM e del Cesdim – abitualmente scompare nelle macroanalisi della Svimez, unicamente preoccupata di contribuire ad assicurare sempre quote di risorse pubbliche aggiuntive per uno sviluppo del Sud in cui poi la capacità di spesa di quegli stessi fondi è ormai da tempo molto differenziata da regione a regione: un tema, quest’ultimo, che renderebbe necessarie a nostro parere analisi accurate sugli apparati amministrativi delle varie Regioni meridionali e sulle loro effettive capacità di lavoro.

Infine, ignorare sistematicamente, come purtroppo si verifica nelle analisi della Svimez, l’impegno, la tenacia e l’intraprendenza dell’imprenditoria meridionale, così come del management delle grandi industrie settentrionali ed estere che sono insediate nel Mezzogiorno induce questa vasta platea di protagonisti della crescita economica del Sud ad ignorare, o peggio a leggere con crescente fastidio, quanto viene presentato ogni anno dall’Associazione di via di Porta Pinciana a Roma che ormai appare molto lontana dalle feconde intuizioni e dalle acute capacità di analisi dei suoi Padri fondatori, primo fra tutti l’indimenticabile professore Pasquale Saraceno che invece promuoveva con i suoi collaboratori accurate ricognizioni dei contesti socioeconomici delle varie aree meridionali e degli effetti che vi si generavano, grazie ai finanziamenti dell’intervento straordinario.


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