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Così la Cina vede Taiwan (e la visita di Pelosi). Legittimità contro opportunità

Enrico Fardella, direttore del progetto China Med e visiting scholar alla John Cabot University, analizza i risvolti della visita della Speaker Pelosi e i potenziali scenari geopolitici e geoeconomici. Xi Jinping potrebbe restare saldamente al potere per molto tempo e farà di tutto per risolvere, come promesso, il tema di Taiwan

La diatriba sulla visita della Speaker statunitense Nancy Pelosi a Taiwan va inquadrata contestualizzando il tema della sua legittimità formale e quello della sua opportunità politica.

La legittimità della visita è subordinata alle diverse interpretazioni sul tema di “una sola Cina”: per i cinesi è ‘ il principio di una sola Cina’ (一中原則), e come tale è irrevocabile e immodificabile: esiste una sola Cina e Taiwan ne è parte; per gli Stati Uniti si tratta della “politica di una sola Cina’ (一中政策), che come tale fornisce flessibilità e ambiguità operativa.

Questo sebbene gli Stati Uniti abbiano riconosciuto la Repubblica Popolare come l’unico governo legale della Cina, in merito ai confini geografici hanno semplicemente preso atto della “posizione” di Pechino riservandosi al contempo la libertà di mantenere relazioni culturali commerciali e “non ufficiali” con il popolo taiwanese. Gli Stati Uniti non hanno mai assunto una posizione formale sulla sovranità di Taiwan e hanno sempre detto di operare affinché il tema venga risolto “pacificamente” tra le due parti.

Questa divergenza veniva di fatto conciliata dalla comunanza di interessi geopolitici, fondata sulla comune avversità contro Mosca durante la Guerra fredda, e geoeconomici, sui quali si sono costruiti i meccanismi della globalizzazione economica e finanziaria.

L’avvento di Xi Jinping alla guida del Partito Comunista ha certamente rappresentato un decisivo cambio di rotta in questo processo. Al fine di imporre un nuovo status internazionale al paese che riflettesse la sua nuova spinta propulsiva, il leader cinese ha innescato un meccanismo di propaganda che ha progressivamente tradotto il “miracolo cinese” in un mero prodotto del genio del Partito. Ciò ha progressivamente portato a una omissione collettiva del ruolo strategico giocato dall’Occidente nei successi del paese, alimentando le tensioni con Washington e alterando gli equilibri geopolitici e geoeconomici sui quali reggeva il fragile compromesso sul tema di “una sola Cina”.

E qui veniamo al tema dell’opportunità politica della visita. Pelosi doveva andare a Taipei in Aprile, ma il viaggio è stato posticipato ad agosto per ragioni di salute. La scelta del timing è decisamente infelice poiché la poneva a cavallo delle celebrazioni del 95esimo anniversario della fondazione dell’esercito cinese e giusto nei giorni in cui la leadership cinese si riuniva nel summit estivo a Beidahe per impostare gli equilibri politici che verranno formalizzati al XXesimo Congresso del Partito, previsto tra ottobre e novembre. In un momento peraltro in cui il cambio delle politiche monetarie negli Stati Uniti, come lo stesso vice ministro delle finanze cinese ha dichiarato, si sta abbattendo come una mannaia sull’economia cinese già indebolita dallo stallo dei consumi interni e dall’impatto dei lockdown di massa promossi dal governo per il controllo del Covid.

In questa cornice la visita della Pelosi, il cui rango istituzionale in qualità di Speaker della Camera dei Rappresentanti è inferiore solo a quello del Presidente e del Vicepresidente degli Stati Uniti, non poteva non essere interpretata come un tentativo da parte del governo americano di forzare l’interpretazione della “politica di una sola Cina” a svantaggio di Pechino.

Seppure legittima, dal punto di vista di Washington, l’opportunità politica della visita avrebbe dovuto essere gestita con maggiore realismo. Ma nel torrido clima elettorale americano in vista delle elezioni di medio termine di novembre sembra che la cautela in diplomazia venga troppo facilmente tradotta in debolezza, e ciò non fa che favorire i processi che si cerca di arginare.

È chiaro che le manovre militari avviate da Pechino come “risposta” alla visita della Pelosi erano state preparate con largo anticipo così come il testo del cosiddetto “White Paper” su Taiwan pubblicato il 10 agosto dal governo cinese. Raffrontandolo con i due testi precedenti del 1993 e del 2000 si nota infatti una differenza sostanziale. Se nei primi due documenti si scriveva che Pechino non avrebbe “mandato truppe o personale amministrativo a Taiwan” in caso di riunificazione – clausola intesa a rassicurare Taiwan sul mantenimento della sua autonomia come regione amministrativa speciale della Cina – nell’ultima versione questo passaggio è assente.

La risoluzione pacifica della questione perde terreno a vantaggio delle opzioni militari, e in questo scenario l’ipotesi di un mantenimento dell’autonomia di Taiwan in seguito ad una riunificazione – secondo il principio di “un paese, due sistemi” – sembra scemare a favore di un approccio più “assimilazionista”, come recentemente suggerito da Lu Shaye, ambasciatore cinese a Parigi che ha parlato di necessaria “rieducazione” della popolazione taiwanese in seguito alla riunificazione. Una traiettoria peraltro già anticipata da quanto accaduto in questi mesi in una delle due attuali regioni amministrative speciali cinesi, Hong Kong.

Su tutto questo quadro dal valore prevalentemente politico, va inoltre aggiunto un livello di carattere economico, o meglio geoeconomico, come accennato. Si è parlato dell’importanza di Taiwan per il controllo del mercato dei microprocessori di nuova generazione, fondamentali per i processi di modernizzazione industriale e militare, per la sua posizione strategica limitrofa ad alcune delle più importanti rotte commerciali e di approvvigionamento energetico del mondo, della sua funzione militare che consentirebbe alla Cina di scavalcare la “first island chain” e acquisire maggiore proiezione strategica verso l’Indo Pacifico, del suo prezioso ruolo di raccolta di intelligence all’interno della Repubblica Popolare cinese e della sua posizione strategica nell’operazione di contenimento della Cina da parte americana. Si è anche detto che la Cina non ha la capacità militare di invadere Taiwan, sia per ragioni strategiche che economiche – rimando agli amici Edward Luttwak e Michael Pettis su questi temi.

Tuttavia resta un fatto certo: Taiwan conta molto di più per la Cina che per gli Stati Uniti o l’Occidente, e soprattutto conta molto di più per i cinesi.

In Cina la questione di Taiwan è al centro delle emozioni che alimentano il nazionalismo di massa e la legittimità politica di Xi Jinping in vista del suo terzo mandato. Sperare in un cambiamento di rotta politica in Cina è legittimo ma rischia di indebolire la nostra capacità di sviluppare una risposta di lungo periodo alle sfide attuali e future. Xi Jinping potrebbe restare saldamente al potere per molto tempo e farà di tutto per risolvere, come promesso, il tema di Taiwan entro il centenario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese nel 2049.

La leadership cinese sembra favorire al momento il cosiddetto ‘modello di Pechino’ ossia quello che portò l’esercito cinese nel gennaio del 1949 a liberare pacificamente la capitale dopo aver accerchiato le truppe nazionaliste che vi si erano asserragliate. Questo approccio si traduce in una strategia ad ampio spettro di cui le esercitazioni militari di questi giorni rappresentano solo la parte più estrema, accelerata come si è detto dal tempismo mal posto della visita della Pelosi.

Alimentare con mosse episodiche – come la visita della Pelosi in un contesto cosi delicato – le sensibilità nazionalistiche dell’opinione pubblica cinese rappresenta un assist ai processi di consolidamento politico in atto in Cina e favorisce accelerazioni sul fronte militare che rischiano di moltiplicare le possibilità di una escalation.

Dato che non sembrano essere in tanti tra gli alleati di Washington a essere disposti a sacrificarsi per difendere la libertà dell’isola in caso di invasione, l’unico deterrente che potrebbe rallentare il successo del ‘modello di Pechino’ è quella combinazione di fattori – economici e politici prima che militari – indirizzati a compromettere l’affidabilità del sistema politico cinese agli occhi degli investitori internazionali indebolendo di conseguenza le capacità della leadership cinese di implementare la sua strategia. La crescita senza precedenti di fughe di capitali dalla Cina avvenuta negli ultimi mesi potrebbe essere già un segnale evidente in tal senso. Se ciò si tradurrà – come ha scritto di recente Adam Tooze – in una tendenza strutturale dipenderà dalla capacità del sistema economico – e politico – americano di sostenerla. In questo orizzonte cosi delicato, la visita della Pelosi non sembra tuttavia fornire segnali rassicuranti.



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