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Taiwan e noi. Cosa dice il caso Pelosi della nostra democrazia

Due anni fa la nebbia autoritaria ha avvolto Hong Kong, ora rischia di cadere Taiwan. Perché dal (non?) viaggio di Nancy Pelosi sull’isola dipende un po’ anche il destino della nostra democrazia. Il commento di Laura Harth

To Taipei or not to Taipei, that’s the question. È la domanda che ha visto l’applicazione di tracciamento degli aerei Flight Radar 24 intassato questa fine settimana con pressoché 100.000 persone intenti a seguire ogni spostamento dell’aereo con targa Spar19, nonché reso Taiwan trending topic su Twitter.

L’organo di propaganda del Partito comunista cinese in lingua inglese, il Global Times, ci ha messo del suo con una serie dedicata di articoli e tweet, echeggiando e raddoppiando gli avvertimenti lanciati da Pechino già la settimana scorsa – in anticipazione della telefonata tra Biden e Xi – circa le conseguenze per Washington se la Presidente della Camera statunitense Nancy Pelosi si fosse recata a Taiwan. Con opzioni che vanno dalle sanzioni economiche fino allo schieramento militare, il sentimento guerriero ha trovato molto eco sui social cinesi, con milioni di visualizzazioni e condivisioni di post che inneggiavano ad un eventuale scontro militare con gli Stati Uniti.

C’era addirittura chi invocava l’abbattimento dell’aereo sul quale viaggerebbe la Pelosi, come alcuni giorni fa Hu Xijin, editorialista del Global Times, il quale oggi ribadisce: “Pelosi è a Singapore e volerà in Corea del Sud, sulla rotta anche Taiwan dopo aver visitato la Malesia. Il PLA è chiaramente ben preparato. Se oserà fermarsi a Taiwan, sarà il momento di accendere la polveriera della situazione nello Stretto di Taiwan.”

Ora, visto che proprio oggi, 1 agosto, il Partito comunista festeggia in pompa magna il novantacinquesimo anniversario del suo Esercito di Liberazione popolare (PLA) i toni accesi e le correlate esercitazioni sulle coste più vicine a Taiwan assumono evidentemente anche un altro connotato ed aiutano a ridimensionare i toni accesi, nonché i rischi paventati da alcuni circa il rischio di un’invasione imminente di Taiwan o di uno scontro militare diretto tra le due maggiori potenze mondiali.

La telefonata di giovedì scorso tra Biden e Xi, durata due ore, che difficilmente può aver portato ad una condivisione politica circa quel che è il tema caldo del momento – con una dichiarata incomprensione di fondo cinese circa “l’incapacità” del Presidente statunitense di controllare una Speaker of the House eletta democraticamente -, sembra innanzitutto essere servita a (ri-)stabilire delle solide linee di comunicazione onde evitare un’incidente che possa far scappare di mano la situazione.

Nel frattempo, la Pelosi ha reso noto il suo itinerario asiatico che ad ora non include Taiwan, ma l’incognita rimane e tiene il fiato sospeso agli osservatori internazionali. In tarda serata di domenica sono poi fonti d’intelligence cinesi che annunciano che si recherebbe sull’isola il 4 agosto.

Quel che ne sia o ne sarà, è evidente che le tensioni intorno a Taiwan si stanno moltiplicando alla velocità della luce, e che i toni sempre più accesi difficilmente si possano ridimensionare senza che qualcuno ci perde la faccia. Una situazione molto esplosiva in vista del ventesimo congresso nazionale del Partito comunista cinese, ove un Xi Jinping che ha fatto della “riunificazione” un suo cavallo di battaglia ambisce alla riconferma della leadership assoluta.

Una leadership intenta ad intimidire il mondo democratico – siano dirette o lanciate attraverso i suoi organi di propaganda – affinché allenti il suo sostegno a Taipei. Hanno ragione i commentatori anche occidentali che parlano di una situazione potenzialmente esplosiva intorno all’isola, ma fanno il gioco di Pechino – cedendo alle intimidazioni e la propaganda – quando ne attribuiscono la responsabilità alle personalità democratiche pronti ad esercitare i loro diritti di liberi cittadini eletti recandosi sull’isola democratica (di cui Nancy Pelosi sarebbe solo l’ultima in una lunga fila, sebbene sarebbe la più alta carica statunitense in loco dal 1997).

Purtroppo, nel crescente scontro sistemico cercato dai regimi autoritari nel mondo ed essendo ben consci dai rischi spaventosi, il mondo democratico non ha scelta. Sono passati soli due anni da quando abbiamo permesso Pechino di prendersi Hong Kong. Ora lo spettro si abbatte su Taipei. Con un Xi che questa fine settimana ha annunciato anche il raddoppiamento degli sforzi del lavoro del Dipartimento del Fronte Unito, o cediamo alle intimidazioni passo per passo e finiamo in un nuovo modello di governo mondiale “con caratteristiche cinesi secondo il pensiero di Xi Jinping” (e non ci si facciano illusioni che la crescente repressione transnazionale si fermerebbe a qualche dissidente di scomodo), o manteniamo la barca dritta a difesa dello stato di diritto, della democrazia, dei diritti umani. E quindi di Taiwan e delle prerogative parlamentari.

Se la mancata prevenzione dell’invasione russa in Ucraina ci deve aver – ancora una volta nella storia – ricordato una cosa fondamentale è che cedere alle intimidazioni o cercare un appeasement a costi sempre maggiori non porta mai alla pace. Senza farci illusioni circa i rischi che corriamo tutti per mano di tali regimi aggressivi, occorre più che mai tenere fermi i nostri principi. Viva Taiwan.


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