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Travolti da un insolito destino e altri paradossi della cancel culture

Il film più sensuale e marxista della Wertmuller racconta il luogo dove Eros e potere si impastano. Ma oggi chi avrebbe il coraggio di farlo? L’analisi di Chiara Buoncristiani, giornalista e psicoterapeuta

Oggi forse non sarebbe possibile fare un film potente e scandaloso come “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare di agosto”. Non solo perché Mariangela Melato ci ha lasciato e Giancarlo Giannini, per quanto ancora notevole, abbia compiuto 80 anni lo scorso primo agosto. C’è il politically correct e ci sono le sensibilità identitarie. E in generale ci proteggiamo non scegliendo quello che ci fa bene, ma togliendo agli oggetti che potrebbero farci male ogni possibile “dannosità” e alterità. Dolci senza zuccheri, sigarette senza combustione, sesso senza corpi, relazioni con gli avatar. Salvo poi trovarci inermi in una pandemia o insensibili davanti allo sbarco di migliaia di profughi.

La storia di Travolti la conosciamo tutti, è quella di due naufraghi su uno scoglio deserto, a largo della Sardegna… Lei è Raffaella Pavone Lanzetti, una viziata e petulante sciura milanese, lui è Gennarino Carunchio, il suo selvatico mozzo siculo. All’inizio, finché sono sullo yacht, lei esercita il suo dominio di classe lamentandosi per la pastasciutta scotta, il vino bianco tiepido e il caffè riscaldato. Lo passivizza sbandierando il potere femminile attraverso le sue tette al vento, che lui, in quanto proletario, non potrà mai desiderare.

Lui è Gennarino Carunchio, irsuto e meridionalissimo marinaio. Nel suo paese siciliano è un dirigente del Pci, ma per vivere deve lavorare sulla “barca degli industriali”. Tra i due deflagra lo scontro – e l’eros – quando il gommone su cui si trovano per una gita perde le tracce dello yacht.

Era il 1974, c’erano le Brigate Rosse, la legge sul divorzio era appena stata approvata e quella sull’aborto lo sarebbe stata a breve. Ma gli spunti di attualità che alimentavano la storia sono più vivi e vegeti di allora: donne contro uomini, tradizionalismo dei ruoli contro emancipazione, Nord contro Sud, ricchi contro poveri.

All’uscita in sala, la pellicola lascia di stucco tutti: il film è un’esplosione di «Stronzo!» e «Bottana industriale!», di sesso esplicito («Sodomizzami» implora lei, ma il marinaio non conosce la parola), e di violenza: prima lei lo mortifica trattandolo come un servo sciocco, poi lui la riempie di botte e la sottomette.

Eppure, sotto l’apparenza grottesca, la commedia mette in scena molto di più di una lotta di classe: Travolti è forse il film italiano più marxista di sempre, di certo il più visto e conosciuto, ma a guardarlo in controluce emerge altro. Un ring dove le logiche di potere si scontrano e si accoppiano con le spinte pulsionali, quasi fino a sollevare il velo sull’enigma della sessualità. Dopo essersi squassati reciprocamente, in ogni senso, i due protagonisti si trovano irrimediabilmente catturati uno dall’altro. Persi su quello scoglio nel nulla, hanno trovato un luogo di passione o forse addirittura di riconoscimento reciproco.

La linea erotica del film va quindi oltre la metafora dello scontro e arriva ad avere risvolti romantici struggenti: follemente innamorati, gli ex nemici vengono annichiliti dal ritorno alla civiltà e rimpiangeranno per tutta la vita quei pochi giorni.

Wertmuller entra in un luogo ben diverso e opposto dalle scene violente alla Youporn. In questo tipo di porno, come in tanti brutti episodi di cronaca, dietro c’è il crollo di ogni tentativo di simbolizzazione, c’è la compulsione a ripetere la dinamica schiavo-padrone. Tra l’umiliare e l’essere umiliati.

Al contrario, il film allude alla natura rischiosa della sessualità e delle relazioni. A una qualità intrinsecamente “traumatica” e allo stesso tempo “nutriente” per la psiche. Con ironia e, bisogna dirlo, una certa brutalità, la storia rappresenta quelle aree di noi che sono altrettante “isole” in cui non ci si può proteggere: su questi scogli i “para-schermi” non funzionano.

È quest’area dell’esperienza che la cancel culture e il politically correct, se non temperati, rischiano di rendere ancora più difficili da esplorare, pensare e rappresentare. Rinforzando così paradossalmente le spinte a difendersi dalle relazioni con la violenza. Oppure alleandosi con la tendenza a risolvere “autisticamente” ogni angoscia e desiderio. Perché se è vero che la violenza di genere è da condannare sempre e comunque, non è altrettanto vero che non ci sia di che pensare e comprendere negli abissi del maschile, del femminile e nella tavolozza delle loro molteplici mescolanze.


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