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Dai parlamentari pianisti all’astensione il passo è breve. La versione di Mastrapasqua

I parlamentari italiani si sono trasformati in “pianisti” utili solo a votare la fiducia al governo di turno, e hanno costretto i loro elettori a fare altrettanto: andare alle urne per mettere crocette dove altri hanno indicato nomi e ruoli. E ci si stupisce che il 38% degli elettori dichiari che non andrà a votare? Il commento di Antonio Mastrapasqua

Che cos’hanno in comune Luigi Di Maio e Bruno Tabacci? All’anagrafe una generazione di differenza. Napoletano il primo, mantovano il secondo. Campione della terza Repubblica Di Maio, “vecchio arnese” della Prima Tabacci. Grillino uno e democristiano l’altro. In verità “ex” per tutti e due. Ecco, sono entrambi degli ex. Ma soprattutto sono stati esentati dal raccogliere firme per presentarsi alle prossime elezioni. Tabacci lo è grazie al suo simbolo-partito che data prima del 31 dicembre 2021, Di Maio grazie al simbolo di Tabacci.

Non sono gli unici a essersi trovati “insieme” non per caso, ma per interesse. L’Italia è ormai una strana democrazia. La voglia e il bisogno di rinnovare il Parlamento si scontra con un conservatorismo difficile da spiegare all’elettore che lo chiedesse. Nei giornali se lo chiedono in pochi, assuefatti forse dalla frequentazione del Palazzo.

Una corsa truccata. Chi c’è già, in Parlamento, ha un vantaggio. Chi non c’è parte con un handicap. Deve raccogliere 73500 firme per presentare una lista. Gli altri, no. Quelli che siedono già in Parlamento sono esentati. In questi tempi “virtuali” a fronte delle migliaia di follower e di hater che piovono a ogni post sui social media, non è facile trovare nemmeno qualche centinaio di persone in carne ed ossa che siano disposte a mettere la loro firma (e i loro documenti di riconoscimento) in calce a un simbolo politico.

E allora, avanti con l’inerzia. Chi c’era già è più facile che possa esserci. La norma che i partiti – ovviamente quelli presenti in Parlamento – hanno votato è ancora meno comprensibile a fronte di un rinnovamento “numerico” dei rappresentanti. Meno rappresentanti richiederebbero maggiore rappresentanza. Invece no. Che siano in pochi o in tanti a sedere sui banchi di Camera e Senato, resta un fatto deciso nel Palazzo, nelle segreterie.

Il “metodo democratico” scolpito nell’articolo 49 della nostra Costituzione è rispettato da queste norme che creano privilegi nella competizione elettorale? È lecito avere dubbi. Abbiamo Garanti per tutto, per la concorrenza e per la privacy, sarebbe rassicurante se ci fosse un Garante per il “metodo democratico” a tutela dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alle scadenze elettorali. Eppure ci sono i garanti della Costituzione più bella del mondo. Sono capaci di evitare che ci siano dei favoriti? Il consenso elettorale si capitalizza? È curioso ammettere che qualcuno possa proporsi in Parlamento, senza misurare il grado del suo attuale consenso, esibendo quello del passato. Una forma mista, ibrida, tra democrazia e aristocrazia?

Di fronte a questo diaframma imposto tra candidati e candidabili ci sono poi le anime belle che si scandalizzano di fronte a chi ha nostalgia delle preferenze. Certo, le preferenze impongono uno sforzo economico che è inevitabile in ogni esercizio di democrazia. Ma garantiscono quel legame del tutto scomparso tra partiti ed elettori. Segreterie, cerchi magici, amici degli amici: ecco i luoghi in cui si scelgono i nuovi parlamentari.

Il legame con il territorio – obbligatorio in ogni democrazia – è vanificato dalle candidature piovute dal cielo. E nessuno avrà mai la voglia, il desiderio o la necessità di frequentarlo, il territorio. Tanto i voti percorrono altre strade. Quello che accade in Gran Bretagna e negli Stati Uniti – e che accadeva anche in Italia nella Prima vituperata Repubblica – da noi non accade più: il deputato che nel fine settimana incontra i suoi elettori, raccoglie problemi per immaginare soluzioni, coltiva la radice stessa della democrazia è una prassi che resta appannaggio delle grandi democrazie. Non più dell’Italia.

I parlamentari italiani si sono trasformati in pianisti – il loro compito è quasi sempre solo quello di pigiare il tasto del voto, di fronte alle richieste di voti di fiducia – e hanno costretto i loro elettori a fare altrettanto: andare alle urne per mettere crocette dove altri hanno indicato nomi e ruoli. E ci si stupisce che il 38% degli elettori dichiari che non andrà a votare?

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