Con le proteste in Iran si moltiplica il problema della successione alla Guida suprema iraniana. Khamenei vorrebbe promuovere l’odiatissimo figlio Mojtaba, ma anche salvaguardare la sua eredità
Da dodici giorni l’Iran è in subbuglio. Il Paese vive l’ondata di proteste più grave dalle manifestazioni per la situazione economica del 2019. A differenza di quelle del 2019, tuttavia, le recenti proteste si concentrano sulle libertà civili, rappresentando una minaccia ancora maggiore per il governo iraniano.
Ciò che seguirà è difficile prevederlo: la repressione è in corso, ci sono almeno 40 manifestanti uccisi e centinaia feriti, ma il regime non può calcare troppo la mano perché questo aumenterebbe i disordini. Nell’incertezza sul futuro, dalle proteste — oltre che l’altissimo livello di malcontento — esce chiaro un altro elemento: Mojtaba Khamenei, figlio della Guida Suprema Ali Khamenei, è l’uomo più odiato d’Iran.
“Morirai, non riuscirai a diventare il leader!”, cantano i manifestanti in tutte le città in cui si diffondono le agitazioni popolari scatenate dall’uccisione di Misha Amini, con ogni probabilità massacrata dalla polizia morale in una caserma in cui era stata condotta con l’accusa di non indossare il velo (la Faraja nega queste ricostruzioni).
Cinquantatré anni, secondo figlio del leader supremo, capo del bayt-e rahbari (il gabinetto della Guida), e comandante de facto della Basji, l’Organizzazione per la mobilitazione degli oppressi, un’unità armata organizzata parte del Sepâh (le Guardie delle rivoluzione, il corpo militare teocratico). Già nel 2009 Mojtaba fu accusato di aver condotto i suoi basiji nella soppressione dei manifestanti della Rivoluzione verde che protestavano per le elezioni del presidente conservatore Mohamud Ahmadinejad.
Ha studiato a Qom, dove è diventato un chierico e uno studioso dello sciismo, anche se esiste più di un dubbio sul suo spessore culturale e teologico, nonché politico, soprattutto rispetto al padre. Mojtaba raccoglie in sé tutto ciò contro cui la maggioranza degli iraniani protesta: è un figlio dell’élite che potrebbe essere destinato a scalare ulteriormente la leadership, è un violento soppressare del dissenso, amministra una serie di asset finanziari miliardari che – per denuncia del suo ex alleato e amico Ahmandinejad – derivano dalla sottrazione indebita di fondi statali (come buona parte della ricchezza di Khamenei).
Se la morte di Amini è stata la causa scatenante – e simbolo – di queste proteste, il bedrock su cui si basano è un malcontento generale che dura da molti anni. E le recenti voci sulle pessime condizioni di salute della Guida Suprema hanno riacceso le preoccupazioni su una possibile successione verso il figlio.
Gli interrogativi sulla salute di Khamenei circolano da oltre un decennio. Nel 2014 è stato confermato che ha subito un intervento chirurgico “riuscito” per un cancro alla prostata. Da allora, le voci sul fatto che l’ayatollah fosse in punto di morte sono emerse anno dopo anno. Questa volta, però, queste voci si sono affiancate agli sforzi per promuovere Mojtaba come un chierico con lo status di “ayatollah” – un requisito essenziale per la leadership suprema.
E tutto avviene solo un mese dopo che Mir Hossein Mousavi, ex candidato alle presidenziali e leader del “Movimento Verde” del 2009, tuttora agli arresti domiciliari perché considerato un personaggio scomodo dal regime, aveva avvertito che erano in corso i preparativi per creare una leadership suprema “ereditaria”. Una denuncia che aveva già fatto rumore.
La discussione sulla successione di Mojtaba al padre non è nuova. Da tempo, lui e il presidente in carica della Repubblica Islamica, Ebrahim Raisi, sono in lizza, ma nonostante Raisi sia un protetto di Khamenei, Mojtaba è il preferito. In base alla composizione dell’Assemblea degli Esperti e vista l’ascesa di una nuova élite ideologica per volere di Khamenei, la possibilità di un altro candidato – tra cui Hassan Rouhani, ex presidente, o Hassan Khomeini, nipote del defunto fondatore della Repubblica Islamica – è altamente improbabile.
Questa lotta per il vertice della leadership è un fattore determinante per gli equilibri interni iraniani. La descrizione di un fronte conservatore che guida in modo unito il Paese è errata tanto quanto quella di un Iran senza divisioni politiche e di un popolo iraniano asservito al potere, come evidente dalla cronaca. Il Paese ha molte complessità e articolazioni.
La diatriba ha plasmato le dinamiche dell’élite politico-teocratica più o meno dal 2019, quando l’ottantatreenne leader supremo ha lanciato un manifesto strategico per i prossimi quattro decenni. Una sorta di eredità politica da imprimere sulla storia del Paese. In questo quadro, l’elezione di Raisi a presidente — facilitata dalla Guida — può essere servita sia per prepararlo alla leadership, ma anche per dargli un altro ruolo e delegittimare il percorso a vantaggio del figlio.
Tuttavia Mojtaba manca di requisiti costituzionali come l’esperienza politica, oltre che andrebbe contro i principi dello sciismo – per esempio, l’Assemblea degli Esperti non ha nemmeno discusso l’idea di selezionare l’influente figlio di Khomeini, Ahmad, quando nel 1989 nominò Khamenei.
Inoltre il padre sembra che ultimamente abbia acquisito consapevolezza dei rischi di tenuta sociale qualora dovesse scegliere di farlo nominare. Quello che accade in questi giorni non può che aumentare questa consapevolezza. Khamenei aveva pensato a una successione ordinata, una transizione graduale che avesse portato all’accettazione (più o meno) di Mojtaba. Ma quello che emerge è che divisioni, caos e disordini sia tra la popolazione che all’interno del regime sarebbero la conseguenza. Rinunciare alla discendenza ereditaria è in questo momento anche un modo per salvaguardare Mojtaba dal rischio di vendette e salvare la legacy di Khamenei.
Un altro fattore riguarda il Sepâh. “Gli ultimi 43 anni hanno visto l’IRGC trasformarsi da milizia islamista a singola istituzione più potente del regime, per volere di Khamenei”, spiegano, in un’analisi per il Middle East Institute, Kasra Aarabi e Saeid Golkar, due esperti del Tony Blair Institute for Global Change. “Alla sua morte, i Guardiani vorranno fare tutto il possibile per garantirsi che la prossima Guida suprema non riduca o metta in discussione il loro potere. Per garantire ciò e per poter esercitare un ulteriore controllo, hanno bisogno che la prossima Guida Suprema sia un utile idiota piuttosto che un accorto operatore politico”.
Su tutto, pesa quell’eredità politica che Khamenei vuole lasciare al Paese e contro cui si muovono parte delle proteste. La Guida intende garantire che la sua ideologia islamista hardline gli sopravviva e anche per questo ha avviato delle restrizioni sulle regole islamiche, come spiegava Abdolrasool Divsallar (UniCatt) su queste colonne. Anche per questo ha preferito piazzare sui posti di potere zeloti fedeli alla linea. Per farlo, ha già in parte sacrificato il processo di promozione di Mojtaba – che è comunque un fanatico radicale – in cambio di un accomodamento interno per indurire il regime, che era passato per otto anni di leadership politica pragmatico-moderato della presidenza di Hassan Rouhani.
Ora c’è la speculazione di più lunga gittata: evitando il trambusto, Raisi potrebbe diventare Guida Suprema per poi aprire la strada in futuro a Mojtaba, che in fin dei conti è ancora abbastanza giovane. Dunque l’elevazione al rango di ayatollah servirebbe ad anticiparsi nella preparazione, ma anche a sondare il terreno. Un meccanismo del genere permetterebbe a Khamenei di mantenere la sopravvivenza e l’impronta sul regime, ma anche di sistemare le divisioni tra le élite – specie se questo genere di successione sarebbe garantito da un qualche accordo tra il figlio e il Sepâh.
E gli iraniani? Sono l’elemento imprevedibile dietro a certi piani, come dimostrato da ciò che sta accadendo da una decine di giorni. Qualsiasi piano dell’élite per il post-Khamenei passerà da una fase cruciale: dopo la morte della Guida, lo scombussolamento sarà concreto e mentre l’establishment dovrà trovare accomodamenti, il popolo penserà che quello potrebbero essere il momento per spingere un cambiamento del sistema – o il suo collasso.