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Il Chips Act non basta. Ecco come gli Usa raggiungono la Cina sull’IA

Nonostante il Chips and Science Act e i vari provvedimenti presi dalle ultime amministrazioni, Washington deve ancora colmare il gap tecnologico con Pechino, che da anni investe in modo massiccio sull’Intelligenza Artificiale. Ridurre questo divario appare un’esigenza imprescindibile per centrare gli obiettivi prefissati

Il Chips and Science Act promosso dall’amministrazione Biden potrebbe non assicurare il dominio tecnologico che gli Stati Uniti stanno cercando. Le ambizioni del piano sono chiare e delle più ambiziose: il governo ha stanziato più di 52 miliardi di dollari per i prossimi cinque anni, per incentivare la ricerca e la produzione interna così da rendersi autonomi e non più dipendenti dalla produzione dei semiconduttori asiatici. Sono stati riservati anche 500 milioni di dollari per l’istituzione di un Fondo internazionale per la sicurezza e l’innovazione tecnologia. Insomma, Washington guarda al futuro ripensando agli errori del passato, che l’ha portata ad importare dall’estremo Oriente il 98% dei chip che utilizza. Una misura importante, ma forse tardiva per vincere la sfida con la Cina.

A far tornare l’America con i piedi per terra è infatti un’analisi della rivista Foreign Affairs, in cui viene espressamente richiesto uno sforzo in più. Tecnologia, d’altronde, significa futuro e chiunque controllerà gli strumenti di base si ritroverà un vantaggio enorme e una posizione dominante sul resto del mondo. Una rivoluzione che è già in atto e a cui la Cina si sta preparando da un tempo molto più lungo rispetto alla sua storica avversaria. Il rapporto della National Security Commission on Artificial Intelligence pubblicato l’anno scorso, con cui il presidente Joe Biden e il suo staff veniva sollecitato ad avere un approccio globale sull’Intelligenza Artificiale, usciva quattro anni dopo la strategia del governo cinese, che fa dell’IA il suo mantra nella maggior parte dei suoi settori. Nei prossimi anni, dunque, di passi in avanti gli Stati Uniti ne compiranno parecchi, ma è da vedere se gli permetteranno di raggiungere Pechino.

I tanti miliardi che la Cina ha investito, infatti, le danno un vantaggio consistente. E il rischio per l’America è quello che la sua attrattività convinca i Paesi più in bilico ad abbracciare il suo sviluppo. L’attrazione è data proprio dalla mancanza di consapevolezza da parte di Washington, per troppo tempo crogiolata sui suoi punti di forza – grandi aziende, i migliori tecnici in circolazione, università che sfornano talenti – senza guardare l’altra realtà dei fatti. La produzione è in declino, anche per via della continua ricerca di prodotti a basso costo,l’esercito non sfrutta come dovrebbe i benefici offerti dall’high-tech e, lentamente, l’I.A. è passata in secondo piano rispetto ad altre priorità nazionali. Al contrario, questa doveva essere un valore aggiunto per centrare gli obiettivi prefissati.

La sintesi è che gli Stati Uniti sono indietro. Per recuperare, sempre secondo la storica rivista, non basterà più darsi un programma nazionale da rispettare (per quanto necessario e importante), ma bisognerà andare oltre. Il che vuol dire investire, tanto, in settori quali la biotecnologia, l’informatica quantistica, l’energia. Settori in cui è imprescindibile avere il dominio se si vuole mantenere lo status di superpotenza. Il tutto per slegarsi quanto più possibile dalle catene di approvvigionamento che arrivano dalla Cina o dai suoi alleati. Ma dovrà anche porre attenzione all’utilizzo che farà dell’I.A. Come ogni innovazione, questa può essere usata a vantaggio o contro la comunità. Nel secondo caso, vuol dire creare nuove disuguaglianze o accentuare quelle già esistenti, lasciando crescere la sfiducia nei confronti delle autorità. Niente di tutto questo dovrà avvenire, con ogni singolo rischio che dovrà essere calcolato in un’attenta analisi costi-benefici per l’individuo e la collettività, andando a rafforzare i valori democratici e favorendo una crescita economica sostenibile – che deve essere accompagnata da un’attenzione particolare all’ambiente – oltre a innalzare la propria sicurezza. Un esempio pratico è arrivato proprio ieri, con la Casa Bianca che ha delineato i sei principi cardine per regolare le Big Tech. Gli Usa, sostengono da Washington, hanno bisogno di “regole della strada chiara per garantire che le piccole e medie imprese e gli imprenditori possano competere su condizioni di parità”.

Gli Stati Uniti non potranno tuttavia svolgere questo ruolo da soli. Al contrario, dovranno circondarsi di quanti più soggetti la pensino come loro. L’aveva preannunciato anche la Chatham House a gennaio scorso, quando in un documento il think tank britannico sollecitava una collaborazione transatlantica. “Mentre Stati Uniti, Ue e Regno Unito divergono nei loro approcci ad alcune aree della governance tecnologica, la cooperazione e le alleanze possono comunque essere rafforzate e gli accordi possono essere raggiunti”, scrivevano nel report. Come a dire: non bisogna essere d’accordo su tutto, se il fine ultimo è lo stesso. In questo modo, si potrebbero offrire quelle certezze che gli Stati non ancora allineati ricercano in un grande Paese. Ancor meglio se una grande coalizione. Mettere l’Intelligenza Artificiale al centro dei propri programmi non sembra più essere rinviabile.


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