I nuovi focolai pandemici rischiano di affossare l’economia del Dragone più di quanto debito e crisi immobiliare non abbiano fatto. Ma d’altra parte eliminare la strategia zero-Covid vorrebbe dire portare il sistema sanitario dritto al collasso. Per questo la crescita degli anni passati non tornerà. Ecco cosa scrivono gli esperti di Foreign Policy, mentre la Germania patisce gli effetti del suo rapporto speciale
Come nelle sabbie mobili, il Dragone non morde più, non azzanna più. Forse non fa più nemmeno paura. La Cina vive la sua strana crisi, un torpore costruito su anni di debito, prestiti a società insolventi, città costruite ma rimaste spopolate, case vendute a chi non poteva comprarle. Tutto questo, come raccontato a più riprese da Formiche.net, con ogni probabilità non porterà la seconda economia globale al crack finanziario, in stile Lehman Brothers, ma certamente ne affosserà la crescita per i prossimi anni. Anche perché c’è un nemico ancora imbattuto: il Covid.
CINA OSTAGGIO DEL COVID
Di questo sono più che convinti gli analisti di Foreign Policy, i quali sostengono come nel breve-medio termine la crescita cinese di manterrà sostanzialmente su ritmi blandi, quasi anemici. Addio, insomma, turbo-Pil. Punto di partenza, i nuovi lockdown imposti dagli altrettanto nuovi focolai pandemici. I quali, “si stanno diffondendo in tutta la Cina, anche se piccoli rispetto al resto del mondo e probabilmente contenuti. Ma con circa 313 milioni di persone in isolamento, anche in grandi città come Chengdu e Shenzhen, le prospettive economiche della Cina appaiono poco rosee”, si legge nel paper.
Ora, “le probabilità che la leadership politica elimini la politica zero-Covid quest’anno rimangono scarse. E questo perché l’apparato di controllo sull’emergenza sanitaria ha assunto una vita propria, impiegando milioni di persone. Smantellarlo sarà difficile”. Tutto questo significa che a Pechino non hanno la benché minima intenzione di rinunciare alla strategia zero-Covid, che fin qui si è dimostrata, numeri alla mano, fallimentare. Altre chiusure, altre restrizioni non potranno che impattare negativamente sul Pil della Cina.
“Probabilmente”, scrive Foreign Policy, “la Cina non può passare direttamente alla cosiddetta fase post Covid della maggior parte dei Paesi sviluppati, dove le vaccinazioni, le ondate di infezioni precedenti, la stanchezza dell’opinione pubblica per le restrizioni e una migliore assistenza medica hanno trasformato il virus in un problema gestibile piuttosto che in una crisi permanente. L’abolizione della politica potrebbe invece provocare un’ondata di casi che travolgerebbe il sistema sanitario”. Tradotto, Pechino è prigioniera del Covid, perché se rinuncia alla strategia zero, allora senza vaccini il sistema sanitario rischia il collasso e l’industria anche. Ma se invece la si mantiene, il lockdown potrebbero stroncare la crescita sul nascere.
L’ORA DELLA STAGNAZIONE
Ma c’è altro che può portare il Dragone dritto verso la stagnazione. “Dopo un decennio di epurazioni politiche e una campagna concertata contro la società civile e qualsiasi tipo di rappresentanza di base, i funzionari a livello locale non possono permettersi di correre alcun rischio. Non è nemmeno sicuro non fare nulla: le cosiddette campagne anti-formalismo richiedono che i funzionari dimostrino costantemente di agire secondo la linea del partito. Ciò significa che la cosa più sicura da fare è spesso quella di attuare una maggiore repressione, che smorza la possibilità di cambiamento.
Alla base di tutto questo c’è il fatto che i governi locali sono a corto di denaro. Il governo cinese deve far fronte a un deficit di finanziamento di quasi mille miliardi di dollari e la maggior parte dell’impatto ricade sulle giurisdizioni locali. Le entrate pubbliche sono diminuite del 9,2% rispetto all’anno precedente”. Morale? “Tutto questo non porterà al collasso economico, ma è probabile che produca una dolorosa austerità, miglioramenti e oneri che ricadono sui cittadini con poche speranze di un reale cambiamento in vista”.
MENO CINA PER L’EUROPA
Tutto questo mentre in Europa c’è chi comincia a sognare un Continente emancipato e indipendente dal Dragone. Più di tutti la Germania che ha fatto della dipendenza dalle forniture altrui (il gas russo, su tutti) la sua way of life. I banchieri però, sembrano essere stufi. Berlino deve diventare più indipendente dalla Cina, non soltanto dalle importazioni di energia e materie prime dalla Russia, ha dichiarato l’amministratore delegato di Deutsche Bank, Christian Sewing, presidente dell’Associazione federale delle banche tedesche (Bdb).
Il manager si è espresso al vertice delle banche, organizzato a Francoforte sul Meno dal quotidiano Handelsblatt. In particolare, Sewing ha affermato che, “quando si tratta di dipendenze, la Germania deve porsi la scomoda domanda di come affrontiamo la Cina”. Secondo il presidente del Bdb, infatti, “il crescente isolamento del Paese e le tensioni montanti, in particolare con gli Stati Uniti, rappresentano un rischio considerevole per la Germania”. Inoltre, la Repubblica federale tedesca ha sperimentato quanto sia pericoloso rendersi “troppo dipendente da singoli Paesi o regioni”. Per Sewing, insomma, diminuire la dipendenza della Germania dalla Cina richiede un cambiamento fondamentale almeno quanto il distacco dalle importazioni di energia dalla Russia. Qualcuno lo ascolterà?