L’intersoggettività è al centro del saggio che La Civiltà Cattolica pubblica oggi su un tema decisivo: “Violenza, intersoggettività e pentimento”, che ha ovviamente al suo centro il rapporto tra religioni e violenza. Lo ha scritto Patrick J. Ryan, gesuita americano, e non è esagerato definirlo illuminante
Siamo quasi tutti consapevoli che Cartesio ha detto “penso dunque sono”. E molti ritengono che questo abbia fissato una verità indiscutibile. E in effetti del vero c’è. Ma il pensiero non si è fermato quel giorno, i suoi sviluppi però sono meno noti. Quando papa Francesco dice che l’uomo è un essere relazionale – l’ho fatto diverse volte – dice che l’uomo è naturalmente aperto alla relazione, senza la quale non potrebbe dirsi né darsi. Camminando su questa strada si può, coerentemente, ritenere che ogni incontro ci cambia, facendoci diventare ciò che siamo. È l’intersoggettività, che non solo cambia molto del modo di vedere le cose, ma può cambiare anche il nostro modo di affrontarle, anche terapeuticamente. Tra due coniugi in crisi (violenze, umiliazioni), il criterio di Cartesio chiede di stabilire chi deve cambiare per primo. Il criterio intersoggettivo chiede a entrambi se vogliono farsi modellare dall’incontro.
Proprio questa scelta affascinante, l’intersoggettività, è al centro del saggio che La Civiltà Cattolica pubblica oggi su un tema decisivo: “Violenza, intersoggettività e pentimento”, che ha ovviamente al suo centro il rapporto tra religioni e violenza. Lo ha scritto Patrick J. Ryan, gesuita americano, e non è esagerato definirlo illuminante: “È tendenza comune dei belligeranti e dei partigiani quella di ignorare la soggettività dei loro avversari, fino a disumanizzarli. Una lezione che tutti noi potremmo imparare ci viene dal poema scozzese-inglese che Robert Burns scrisse nel 1786, intitolato «A un pidocchio scorto sul cappellino di una signora, in chiesa»: «Come vorrei che un qualche Potere ci concedesse in dono di vedere noi stessi come ci vedono gli altri!». Tutti abbiamo un pidocchio in bella vista sui nostri copricapi ebraici, cristiani o musulmani, e non abbiamo motivo di metterci a guardare con disapprovazione i copricapo altrui”. L’autore chiarisce subito che il problema della violenza riguarda anche le altre religioni e che solo per motivi di spazio si limiterà alle tre religioni monoteiste.
Il suo racconto non può non può essere qui riassunto integralmente e mi limiterò a presentare quanto spiega dell’islam, non perché più importante, ma perché a mio avviso più sorprendente. Padre Patrick J. Ryan parte da una verità a molti nota ma sempre rimossa: jihad non vuol dire guerra, o guerra santa, vuol dire “lotta”. Quale lotta? Lotta, a differenza di guerra, è parola complessa. Molti musulmani non fondamentalisti l’hanno spiegata come “lotta interiore” per migliorarsi e così via. Lui la spiega ricordandoci che mondo ci fosse dalle parti di La Mecca prima dell’islam. “Certamente in Arabia, prima di Maometto, c’erano oasi in cui la semina e il raccolto avvenivano pacificamente, ma si trattava di casi eccezionali. Nell’Arabia divisa, prima della rivelazione coranica, a chi aveva intenzione di sopravvivere era richiesta la lotta, il jihad: lotta per nutrire sé e la propria famiglia con i prodotti delle poche oasi; lotta per difendere sé e il proprio clan dai vicini predoni. Quando Maometto iniziò a proclamare in Arabia un messaggio di unità pacifica – unità divina e unità umana –, dovette scontrarsi con l’ostinazione della sua città natale. Nel 622 d.C. lui e i suoi discepoli si ritirarono dalla Mecca nell’oasi di Yathrib, in seguito ribattezzata ‘Medina, ‘la città del Profeta’. Lì si impegnarono nella lotta per la sopravvivenza, il jihad”.
Qui il lettore è indubbiamente attratto da quelle parole “unità divina, unità umana”. Maometto aveva capito che anche a La Mecca ci si salvava se si capiva che “siamo tutti sulla stessa barca”?
Il racconto prosegue spiegandoci che le possibili forme violente di questa “lotta” sono state regolate dal legislatore, come ha raccontato essere accaduto nella storia del cristianesimo, e le presenta fedelmente: “ Il jihad e i suoi sinonimi possono deteriorarsi, scadendo in qualcosa di assolutamente e fatalmente soggettivo: la «mia» lotta, o la «nostra» lotta per sopravvivere, per sconfiggere forze avversarie, a volte può mascherare il desiderio di ottenere potere, conquistando o uccidendo gli altri. La tradizione giuridica islamica, tuttavia, ha circoscritto il jihad con restrizioni che non consentono di includere in esso ogni forma di violenza. Esso, per esempio, non deve essere condotto contro altri musulmani. Se si può provare che dei musulmani hanno completamente ripudiato la fede, il jihad potrebbe essere giustificato, ma in tal caso va tenuto presente un altro imperativo coranico: «Non c’è costrizione nella religione» (Corano 2, 256). Il jihad non deve essere condotto contro il popolo del Libro: contro ebrei, cristiani e zoroastriani, in primo luogo. Ma nel corso della storia delle società musulmane la categoria del popolo del Libro è stata ampliata, fino a includere genti diverse, come i vichinghi e alcune popolazioni non musulmane nel Sahara e nel Sahel africano”.
Ma quello che mi ha sorpreso è il passaggio successivo, di cui non avevo mai letto. È uno dei tanti episodi riferiti e validati da tradizione islamica relativi alla vita del Profeta. “Quando, dopo la conquista della Mecca, nel 630 d.C., un avversario di Maometto corse verso le file dell’esercito musulmano gridando che il Dio con la ‘D’ maiuscola era l’unico Dio e che Maometto ne era il messaggero, uno dei seguaci più stretti del Profeta, Usama ibn Zayd, lo uccise sul posto. Maometto, quando fu informato della cosa, investì Usama con una severità sorprendente: ‘Chi ti assolverà, Usama, dall’avere ignorato la confessione della fede?’. Usama rispose che ‘l’uomo aveva pronunciato quelle parole solo per sfuggire alla morte’. Maometto si limitò a ripetere la sua domanda più volte: ‘Chi ti assolverà?’. Usama si vergognò di ciò che aveva fatto a tal punto che in seguito dichiarò: ‘Avrei voluto non essere stato musulmano fino ad allora ed esserlo diventato solo quel giorno’”.
Che la letteratura integralista o fondamentalista rimuova questo episodio della tradizione islamica si può capire, è la rimozione da parte nostra, cioè di chi osserva l’islam dal suo esterno, che colpisce. Senza rimuoverlo si capisce meglio ciò che attesta la parte conclusiva del saggio e che è documentato dalla migliore letteratura cristiana sui primi anni dell’impero arabo: molti cristiani, soprattutto perseguitati dal cristianesimo bizantino perché non concordi con la nuova dogmatica fissata dai grandi concilii bizantini, vedevano con gran simpatia gli arabi musulmani. Successivamente molti cristiani si convertirono all’islam perché la tassa richiesta da loro era più bassa di quella richiesta dai bizantini. Le cose cominciarono ad andar male quando i cristiani furono trattati come “minoranza”, proprio come era accaduto agli ebrei con i cristiani ai tempi di Costantino IV.
La Storia ha preso la piega che conosciamo, ma conoscerla meglio ci aiuta a capire come comportarci e a non risolvere tutto dividendoci in buoni e cattivi. E qui sopraggiunge la conclusione folgorante che riguarda anche i “laici”, o non credenti, che parlano di tutti e mai parlano di sé: il pentimento. “Che siamo ebrei, cristiani o musulmani, tutti abbiamo bisogno di praticare il pentimento: teshuvà, metanoia, tawba. È necessario che ci voltiamo, torniamo indietro e cambiamo mentalità. È ancora più chiaro, tuttavia, che anche molti laici dovrebbero pentirsi, ma questo concetto non rientra nel loro modo di pensare. Non esistono un Yom Kippur laico, una Quaresima laica, un Ramadan laico.
Molti anni fa, quando ero dottorando ad Harvard, incontrai a un cocktail party la moglie di un importante professore di economia. Mi chiese che cosa stessi studiando, e io le risposi: “La storia comparata delle religioni”. “Religione”, disse distrattamente; e poi si interruppe, cercando qualcosa da aggiungere. “Ha causato così tante guerre”, disse infine. Replicai: “Più dell’economia?”. Le persone di fede non sono le uniche che hanno bisogno di vedere il mondo in modo intersoggettivo, le uniche che hanno bisogno di pentirsi. Per tornare a Robert Burns: “Come vorrei che un qualche Potere ci concedesse in dono di vedere noi stessi come ci vedono gli altri!”. Non riguarda anche i credenti nelle società secolarizzate?