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Crisi energetica, a rischio l’industria metallurgica europea. Ecco perché

L’aumento vertiginoso dei prezzi del gas e dell’elettricità è un duro colpo per il settore metallurgico, industria energivora ma fondamentale per la transizione. Sono a rischio posti di lavoro e competitività europea sui mercati mondiali. Senza industria, l’Europa rischia la totale marginalizzazione…

Il grido di allarme che giunge da tutta Europa sull’insostenibilità dell’attuale crisi energetica è sempre più forte. L’aumento dei prezzi dell’elettricità ha raggiunto oramai livelli che sembrano dividere il mondo in “zone di contagio”, dal momento che persistono differenze evidenti tra l’Europa, l’Asia e gli stessi Stati Uniti.

I prezzi del gas, che rimangono indicizzati a quelli della generazione di energia elettrica e su cui i governi nazionali dell’Unione Europea continuano a dividersi, sono aumentati di dodici volte rispetto alla media registrata nell’ultimo decennio. Tra le cause strutturali, come ricordato da un recente policy brief del think tank Bruegel, vi sono le politiche climatiche che hanno disincentivato investimenti in nuove capacità upstream, la manipolazione della Russia delle forniture tramite chiusure selettive dei gasdotti e l’invasione dell’Ucraina che ha fortemente scosso i mercati.

Nonostante una serie di iniziative che l’Unione Europea si prepara ad adottare per far fronte ad una situazione che giorno dopo giorno si fa più drammatica, il tempismo e la profondità delle soluzioni adottate saranno cruciali nel determinare il destino di molte industrie del continente. Tra le più colpite, quelle della trasformazione dei metalli, fortemente energivore ma essenziali per la competitività dei settori più a valle.

In una lettera congiunta diffusa dall’associazione Eurometaux, che raggruppa le principali voci dell’industria metallurgica europea, oltre quaranta dirigenti e CEO rammentano a Bruxelles che il settore stia affrontando una “minaccia esistenziale”. Già sotto pressione per l’aumento dei costi delle emissioni di C02 e le sempre più stringenti normative comunitarie (tra cui l’adesione all’Emission Trading System), ora le industrie dei metalli ferrosi come alluminio, acciaio e non ferrosi come zinco, rame e una serie di materie prime critiche (litio, nickel, manganese) devono affrontare il martello dei prezzi energetici.

L’Europa conta solo per il 6% della produzione mondiale di alluminio, ma che rimane di importanza strategica per settori consolidati come aerospazio, difesa e automotive. A preoccupare, tuttavia, rimane un business environment poco attraente per nuovi investimenti che resteranno cruciali per il posizionamento competitivo dell’Europa nelle filiere esistenti e future. In assenza, oltre ad accrescere il volume di dipendenza da fornitori esteri – secondo Reuters, USA e UE hanno aumentato le importazioni di nickel e alluminio dalla Russia del 70% tra marzo e giugno di quest’anno, per un totale di 1.98 miliardi di dollari – a preoccupare sarebbe anche il peso sulla bilancia commerciale della CO2 importata, rendendo vani i continui richiami ad un’implementazione più stringente del meccanismo protezionistico del CBAM (Carbon Border Adjustment Mechanism).

“La produzione cinese di zinco è 2.5 volte più ad alta intensità di emissioni di quella europea, 2.8 volte nel caso dell’alluminio e 3.8 per il silicio”, si legge nella lettera. Proprio per questo gli industriali chiedono a Bruxelles meccanismi compensativi sull’ETS per soccorrere finanziariamente le loro attività. Altrimenti lo scenario potrebbe essere devastante.

Secondo l’associazione europea, la portata della crisi è tale che si parla di “deindustrializzazione permanente dell’Europa”, con il rischio che diverse attività siano destinate alla chiusura in assenza di copiosi aiuti da parte di Bruxelles. Secondo i dati diffusi nella comunicazione, il 50% della capacità di trasformazione europea di alluminio e zinco è “offline” dal momento che la produzione è ormai un business in perdita stante le marginalità soffocate da costi insostenibili.

L’industria pesante, soprattutto quella legata agli acciai, negli ultimi dodici mesi ha assistito impotente all’aumento vertiginoso dei prezzi, con le conseguenze che ora si fanno evidenti. Secondo il monitoraggio del GMK Center, sono ben tredici gli impianti che da settembre dovranno stoppare la produzione o subire significativi ritardi nelle consegne. Si tratta principalmente di stabilimenti di Arcelor Mittal in Spagna, Francia, Germania, Polonia, senza dimenticare Arvedi e Acciaierie d’Italia nel nostro paese.

Ma non si tratta soltanto dell’industria siderurgica, la partita è per le materie prime critiche per la transizione energetica. Infatti, molte delle aziende che hanno firmato la lettera sono player emergenti in Europa nel settore delle batterie elettriche e delle rinnovabili che hanno ben chiari i costi e i rischi della transizione. “Gli obiettivi europei per l’energia pulita richiedono un settore metallurgico in crescita e competitivo per assicurare forniture extra dei materiali necessari a svincolarsi dai combustibili fossili. Metalli di base, per le batterie e altri saranno richiesti in ingenti volumi per le reti e i veicoli elettrici, i pannelli solari, le turbine eoliche, la produzione di idrogeno” rammenta Eurometaux che aveva diffuso, nei mesi scorsi, un importante studio sui volumi di materie prime necessari nell’ottica del Green Deal.

Un aumento della domanda che sarebbe addirittura maggiore se l’Europa decidesse di rafforzare la sua presenza negli stadi downstream delle filiere green, come più volte sventolato dai decisori europei, per inserirsi nella corsa alle batterie, ai motori elettrici e alle tecnologie low-carbon. Ma senza capacità di trasformazione, in grado di sostenere eventuali seppur difficili forniture europee o friendshored (Canada, Australia), la dipendenza da paesi terzi sarebbe inevitabile.

Ecco perché la crisi rischia di far saltare anche alcuni presupposti per un’Europa leader nel settore delle rinnovabili: senza una politica industriale che sappia proteggere le industrie chiave e la competitività del mercato unico nelle filiere del futuro più prossimo, qualsiasi discorso sull’‘autonomia strategica’ risulterà soltanto fumo negli occhi.


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