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La riforma dell’insolvenza della grande impresa in crisi tra pragmatismo e demagogia

Diviene centrale ora, dopo l’entrata in vigore del Codice della crisi di impresa, la figura del commissario straordinario. Una sfida che il nuovo Parlamento e il nuovo governo saranno chiamati ad affrontare in tempi divenuti oramai imminenti. L’analisi di Stanislao Chimenti, partner dello studio internazionale Delfino Willkie Farr&Gallagher

Entrato finalmente in vigore dopo una lunga gestazione il Codice della crisi di impresa, si torna a parlare di una riforma organica delle procedure di amministrazione straordinaria della grande e grandissima impresa insolvente.

Come noto, oggi la disciplina è alquanto frastagliata e risente di talune situazioni emergenziali insorte con le prime crisi della grande impresa, regolate dalla legge Prodi bis (del 1999), e che sono poi culminate poi con la vicenda Parmalat che rese urgente l’emanazione di una normativa ad hoc rappresentata dalla Legge Marzano (del 2003).

Già a una prima analisi, dunque, appare evidente l’opportunità di emanare una normativa unitaria al fine di rendere organica una regolamentazione che oramai è divenuta labirintica e spesso contraddittoria.

In verità si discute anche se non sia divenuto opportuno attenuare i profili di specialità della crisi della grande impresa insolvente e, dunque, rendere tale disciplina più coerente con quella generale per le altre imprese.

Da un punto di vista tecnico-giuridico è possibile enucleare argomentazioni a supporto di entrambe le tesi, ma probabilmente deve condividersi la scelta, eminentemente politica, se si vuole di politica economica, che vorrebbe ancora valorizzare le peculiarità della crisi di una grande impresa.

In estrema sintesi, tali peculiarità sono legate proprio alla natura del tessuto economico-sociale del Paese: il numero delle grandi imprese in Italia è relativamente ridotto e, dunque, il loro “peso specifico” è in proporzione maggiore rispetto a quello, ad esempio, delle grandi imprese che operano in altri Paesi Europei.

La maggior parte delle imprese “ordinarie” o “piccole”, inoltre, è strettamente connessa con le grandi imprese e anzi spesso da esse dipendente, in modo più o meno diretto.

La crisi di una grande impresa in Italia, dunque, produce conseguenze potenzialmente molto serie perché si verificano con più rapidità gravi fenomeni di concatenazione e di contagio.

La ragione di una normativa organica ad hoc, dunque, è di natura squisitamente politica. Si vuole in altri termini perseguire l’obiettivo del recupero dell’equilibrio economico-finanziario e del superamento della crisi nel modo più efficace possibile perché l’eliminazione tout court della grande impresa dal mercato avrebbe costi sociali troppo elevati e comunque difficilmente sostenibili.

Al fine di conseguire tali obbiettivi diviene allora centrale la figura del commissario straordinario.

E tuttavia è proprio in relazione a tale figura che la disciplina vigente ha mostrato le maggiori inefficienze.

Difatti, il commissario straordinario è nominato dal ministero dello Sviluppo Economico (Mise). Tale opzione legislativa ben si comprende atteso che tale figura rappresenta la longa manus dell’attività di Governo e dunque, come detto, nella sua attività è mosso da finalità anzitutto di politica economica.

Contemporaneamente, però, il commissario straordinario riveste anche la qualifica di pubblico ufficiale ed è gravato di pesanti obblighi di legge procedimentali che non sono affatto improntati alla logica del salvataggio/recupero della grande impresa in crisi, quanto, piuttosto, a quella della mera tutela dei creditori in un’ottica concorsuale e di liquidazione/realizzo di attivi.

Questo dualismo rende insomma il commissario straordinario una sorta di Giano bifronte, obbligandolo a comportarsi sia come imprenditore vero e proprio, sia come liquidatore di (ciò che resta di) compendi aziendali.

Si tratta di una dicotomia letteralmente irriducibile che si riflette, inevitabilmente, nel successo delle procedure, rendendo tali obbiettivi intrinsecamente sempre più difficili da conseguire.

Per di più, il sistema della legge non agevola l’interlocuzione tra il commissario e il Mise che lo ha nominato, difetto questo che la prassi ha ben evidenziato e forse accentuato.

Ma tale interlocuzione è essenziale e deve essere continua giacché il commissario deve necessariamente operare sulla base di indicazioni di vertice provenienti dal proprio referente politico-amministrativo, senza che ciò debba destare scandalo, dovendosi anzi inserire coerentemente, come detto, in quadro generale di perseguimento dei più vari obbiettivi di politica economica (ad esempio nel settore dell’energia, del turismo, della siderurgia, del trasporto aereo e marittimo, del manifatturiero, ecc.).

In questo senso, invece, si registrano scelte di indirizzo opposto che vorrebbero esaltare il profilo di terzietà e distacco del commissario straordinario e che però appaiono improntate a considerazioni di ordine demagogico.

Si pensi, in tal senso, al tema dei compensi del commissario.

Il contenimento dei costi delle procedure di amministrazione straordinario è obiettivo senz’altro condivisibile che però è stato perseguito con modalità sui cui sono opportune talune riflessioni.

Viene in rilievo, da ultimo, il decreto 21 giugno 2021 del ministero dello Sviluppo Economico secondo il quale, al fine di limitare il ricorso a consulenze e incarichi a professionisti per lo svolgimento delle attività relative all’incarico commissariale, ove non strettamente indispensabili, se nel corso della procedura il costo complessivamente sostenuto per le consulenze e gli incarichi attribuiti, di qualunque natura, è superiore al 5% dell’attivo realizzato dalla procedura, il compenso finale del commissario è ridotto proporzionalmente a determinate percentuali.

Inoltre, nel corso della procedura possono essere corrisposti al commissario straordinario acconti sul compenso, al termine della fase di esercizio di impresa e limitatamente alle procedure che sono oggetto di proroghe dei termini di esecuzione del programma, soltanto dopo almeno due anni dal conferimento dell’incarico; successivamente, possono essere corrisposti acconti con cadenza non inferiore a trentasei mesi.

Questo approccio, tuttavia, non tiene in alcun conto quale sia la realtà effettiva dell’attività propria del commissario straordinario.

Per ciò che si è detto prima, infatti, al commissario straordinario è chiesto, anzitutto, di assumere una veste imprenditoriale, seppure nelle forme peculiari di una gestione eterodiretta dal Governo stesso. Ma allora è difficile ipotizzare che il commissario – quand’anche l’organo sia collegiale – possa disporre di tutte le competenze necessarie a seguire tutte le attività della grandissima impresa, senza avvalersi dell’opera di qualificati professionisti e consulenti.

Il meccanismo di riduzione del compenso, dunque, rischia di ingenerare fenomeni opposti secondo cui il commissario potrebbe essere indotto ad accentrare su di sé attività che, per quantità e/o qualità, non è in grado di assolvere.

Il meccanismo di blocco di erogazione degli acconti sui compensi, infine, rischia di restringere eccessivamente l’accesso alla carica.

In questo modo il timore è che insorgano fenomeni di vera e propria selezione avversa perché la carica di commissario straordinario diviene eccessivamente onerosa e connessa all’assunzione di grandi responsabilità, non adeguatamente bilanciate da adeguati poteri e attribuzioni.

Anche questa è la sfida, dunque, che il nuovo Parlamento e il nuovo governo saranno chiamati ad affrontare in tempi divenuti oramai imminenti.


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