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Declino della civiltà occidentale e crisi italiana. La necessità di una Nuova Camaldoli

Tra i principi ispiratori del Codice di Camaldoli vi era l’idea di uno Stato inteso come garante e promotore del bene comune. Oggi ci siamo dimenticati dì questa finalità e ci sfugge lo Stato, che i liberali della second’ora vorrebbero ridotto a mero fascio di residuali funzioni fiscali e amministrative

Il problema della traiettoria disastrosa dello sviluppo della civiltà occidentale dell’era postmoderna – che costruisce presente e futuro sul totale nichilismo in relazione alle grandi conquiste delle precedenti epoche culturali – sta scivolando irresistibilmente dal pieno al vuoto. Esso è diventato il leitmotiv delle discussioni filosofiche, culturali e politiche degli ultimi tempi.

La natura distruttiva del sistema che si basa su capitale e banche è stata ripetutamente notata, puntualizzando sì che l’Occidente sa galvanizzare e dividere, ma non gli è dato di stabilizzare e unire. L’umanità non può raggiungere l’unità politica e spirituale seguendo questa via che l’emisfero ovest sta percorrendo.

Allo stesso tempo, l’urgenza di unirsi è del tutto evidente, perché oggi l’unica alternativa alla pace è l’autodistruzione, a cui la corsa agli armamenti nucleari e basati pure sull’intelligenza artificiale sta spingendo l’umanità verso l’impoverimento insostituibile delle risorse naturali, l’inquinamento ambientale e l’esplosione demografica senza garanzie future di sussistenza.

L’inevitabilità di un cambio di paradigma nello sviluppo umano è stata già registrata nel rapporto 2018 del Club di Roma – associazione non governativa, non-profit, di scienziati, economisti, uomini e donne d’affari, attivisti dei diritti civili, alti dirigenti pubblici internazionali e capi di Stato di tutti e cinque i continenti, fondato nel 1968 – che contiene aspre critiche al capitalismo neoliberista, nonché un appello all’élite intellettuale mondiale per fondare il concetto di economia alternativa e ritorno ad un nuovo Illuminismo, che possa salvare la civiltà, occidentale e non, con una visione del mondo olistica.

Le rivoluzioni industriali e informatiche hanno mostrato la natura illusoria della speranza per la ragione, che avrebbe dovuto correggere il “secolo dislocato”. La crescente èra digitale sta avvicinando la transizione del mondo alla prospettiva di una totale automazione e robotizzazione della produzione, che esclude quasi del tutto una persona dalla vita economica. Sullo sfondo della crisi ecologica ed esistenziale, si discute sempre più dell’idea transumanista di raggiungere l’immortalità creando un postumano artificiale come un sistema non biologico auto-organizzante, così come abbiamo affrontato in precedenti articoli.

L’espansione dei problemi globali stimola la comprensione del destino dell’ampio percorso di sviluppo che porta al consumo predatorio di risorse, rafforza la critica al progresso scientifico e tecnologico come un ramo “senza uscita” dello sviluppo della civiltà teso unicamente al profitto. Il sistema economico capitalistico di mercato e la dittatura della finanzocrazia mondiale sono diventati il becchino ecologico dell’umanità. In una folle corsa del gregge il pianeta si sta avvicinando all’orlo dell’abisso, al confine del suicidio tribale collettivo.

Sullo sfondo di un catastrofico aggravamento di contraddizioni e problemi radicati, il logos umanitario comincia ad assumere i connotati dell’escatologia religiosa, testimoniando che la nostra epoca è alla vigilia della resa spirituale.

La resa spirituale ai avvicina a faglie di livello metafisico: la civiltà europea è entrata nella fase della fatica finale per il sovraccarico causato dalla pressione dell’impulso tecnologico prometeico. Il logos – energicamente raffreddato dall’era della modernità e ontologicamente evirato dal nichilismo postmoderno – sta perdendo le sue posizioni. La crisi attuale non è delle singole società, ma dell’intero sistema macroculturale che ha sostituito il Mondo Antico, sistema che era appunto logocentrico.

Il Verbo ha esaurito le sue possibilità culturali-creative, e il postmoderno ha tracciato una linea sotto di esse. La parola, precipitando nell’entropia del relativismo, non è più né il motore delle dinamiche culturali né la maschera della stessa cultura.

L’erosione dei tradizionali criteri di identità – in specie in Italia, dove prima di Ciampi, la bandiera nazionale la si poteva sventolare solo allo stadio, sennò si era chiamati fascisti – criteri nazionale-culturali, di genere, sociale, professionale, ossia quell’atomo indivisibile che per molti secoli ha fornito l’aspirazione verticale della cultura europea nella sfera dello spirito, sta crollando: quando la cultura non sopravvive, restano solo gli scarafaggi.

La spietata selezione del mercato disumanizza una persona, privandola delle energie spirituali chiave: vergogna, coscienza, misericordia, perdono, fede, speranza, amore. Il mercato dominante, liberando gli elementi dell’avidità e dell’invidia, uccide la motivazione alla partecipazione sociale, che sta alla base delle strutture della società civile. Privata dell’energia della solidarietà, una società perde la capacità di fornire assistenza reciproca e autodifesa, diventa un ambiente disperso che esiste sotto il segno dell’entropia come sistema distruttivo che partorisce anticorpi asociali e criminogeni che distruggono la civiltà originaria.

Come abbiamo rilevato sopra la crisi attuale non è delle singole società, ma ognuna di esse ha caratteristiche differenti. In Italia quella che stiamo attraversando non è più solo una crisi economica o finanziaria, ma di prospettiva. Serve una nuova Camaldoli per rilanciare l’idea di bene comune e uscire da questa situazione, in cui dopo la parentesi costruttiva del grande ceto politico 1944-1991, si sono succeduti personaggi posti fra lo scendere in campo calcistico, e l’asservimento total-colonizzante privo di una seppur minima politica estera.

Camaldoli significò attivare una prospettiva, una visione alta ma al tempo stesso operativa in un momento non meno critico dell’attuale per il nostro Paese. Tra i principi ispiratori del Codice di Camaldoli vi era l’idea di uno Stato inteso come garante e promotore del bene comune. Oggi ci siamo dimenticati dì questa finalità e ci sfugge lo Stato, che i liberali della second’ora vorrebbero ridotto a mero fascio di residuali funzioni fiscali e amministrative. Ci siamo dimenticati, soprattutto, del bene comune. Su questo basterebbe intenderci sul significato di politica che ci dovrebbe legare non al liberalismo della Scuola di Chicago – padre del colpo di Stato cileno del 1973 – ma a un progetto completo di riforma dello Stato e dell’economia italiane. Oltre all’accettazione dei diritti dell’uomo in funzione di una teologia politica che riconosca la centralità della persona, l’accettazione della legge dello Stato se coincide con il retto sentire e la libertà di tutti gli uomini. Il bene comune – come ci detta il codice di Camaldoli del 1943 – è il fine dello Stato, che non può sostituirsi ai singoli, al mito del Leviatano di Hobbes, ma che riguarda le condizioni esterne necessarie a tutti i cittadini per lo sviluppo delle loro qualità e del loro benessere.

Oggi c’è davvero bisogno di questa filosofia nel dibattito politico e culturale italiano e europeo, solo che mancano gli uomini all’altezza di farlo. Gli Stati – compreso il nostro Paese – sono diventati tutti più deboli e incapaci, semicolonie che in luogo di proteggere e sostenere il bene comune, non fanno alcunché per impostare un’alternativa nel tempo degli hedge funds, della globalizzazione finanziaria, dell’impoverimento di massa e del trasferimento di gran parte del baricentro manifatturiero e, poi, dal centro euroamericano ai Paesi in Via di Sviluppo, dove la cultura del bene comune, per motivi storici e ideologici dovuti al pensiero liberale, non è particolarmente diffusa laddove si globalizzano le idee e dopo si universalizza la finanza.

Dignità, eguaglianza, solidarietà della persona umana: ecco altri principi ispiratori di Camaldoli. Oggi che molti sembrano richiamarsi, spesso a sproposito, all’esperienza del ‘43, come si crede di poter ricollocare la persona nella centralità che le compete sulla scena umana? La persona nella filosofia politica è irriducibile non solo allo Stato, ma anche alla comunità e al gruppo. Viene in mente il concetto heideggeriano di «essere gettati nel mondo», una relazione che implica l’unicità non solo della persona fisica, ma anche della sua substantia morale e spirituale. Uscire dal soggettivismo capitalista era il primo fine dei collaboratori di Mounier, poiché il gruppo di Esprit vedeva nel concetto borghese di persona l’atomismo del mercato, l’incapacità di creare una teoria dello Stato, il bellum omnium contra omnes – ed in sedicesimo il proliferare di liste ad personam è una sua squallida manifestazione – che può distruggere non solo ciò che è “superato” nell’economia, secondo il modello di Schumpeter, ma anche la storia e la morale profonda dei popoli. Per Mounier, il capitalismo «faceva troppo presto»”, accelerava sul breve periodo trasformazioni che avrebbero necessitato di più tempo.

Solo il bene comune e ciò che lo rende efficace la teoria dello Stato democratica e quella consequenziale della rappresentanza politica. Oggi la situazione è complessa, poiché la persona e la sua dignità, con i suoi diritti inalienabili è divenuta, grazie all’ideologia succitata del postmoderno, un semplice fascio di istinti che stacca il cittadino dalla propria storia, o una «macchina desiderante», per usare una vecchia formula di Deleuze.
Senza il “codice di Camaldoli” non vi sarebbe stata la Costituzione repubblicana, e non dico questa costituzione, ma una Carta Fondamentale italiana e repubblicana qualsivoglia.

Se mi si consente una serie di suggerimenti, un nuovo “Codice” camaldolese potrebbe partire dalla nuova teoria della “persona”: non più titolare di semplici diritti formali, ma capace di elaborarne dì nuovi all’interno dì una libera comunità.

Difendere l’universalità dei valori umani, difendere un nuovo diritto del lavoro nell’era della globalizzazione, senza creare rendite ma anche senza distruggere vite e dignità delle persone, e tutelare la natura, sono tutti elementi di una Nuova Camaldoli che non potrà non essere globale, come universali sono le sfide che anche l’Italia si trova a fronteggiare in questi anni.

Un intervento pubblico nell’economia sarebbe auspicabile, proprio quando ritornello delle “privatizzazioni” ci viene alla memoria. E poi bisogna chiedersi cosa vuol dire “intervento pubblico”. Di fronte a una questione come questa, ci domandiamo: cos’è davvero pubblico e cosa intrinsecamente privato? Il principio di una buona gestione va ben oltre la titolarità della proprietà delle imprese, e probabilmente la questione di una nuova teorica dell’intervento pubblico nell’economia riguarda un vecchio termine caro agli economisti di Camaldoli: la programmazione.

Noi abbiamo a che fare, oggi con un capitalismo che “crea valore per gli azionisti”, ma senza definire il tempo della creazione e della durata pure morale di tale valore. Una economia “mordi e fuggi” che sta distruggendo sé stessa. Sarebbe necessario, e anche questo è nello spirito della carta camaldolese, un dibattito globale, nelle sedi opportune, su chi produrrà cosa nei prossimi anni.

I “venti gloriosi” anni che vanno dalla prima ricostruzione economica postbellica degli anni Cinquanta alla fine della parità fissa definita a Bretton Woods (Ferragosto 1971), che gli Stati Uniti d’America utilizzarono per far pagare agli europei la loro superinflazione da guerra del Vietnam in parallelo con la costruzione della Great Society di Lyndon Johnson, sono finiti. Ma non affatto finita la necessità di una analisi concordata della divisione mondiale del lavoro. Se si razionalizza la divisione mondiale del lavoro, sì aumenta la redditività media degli investimenti, che acquisiscono effetti di sinergia ambientale, e il tutto dovrebbe essere gestito, sempre nello spirito di Camaldoli, da un nuovo accordo tra le monete. Non più la guerra euro-dollaro, rovinosa alla fine per l’euro, ma la ridefinizione di bande di oscillazione tra le monete tali da sostenere periodo nazionali di sviluppo o crisi senza esportare inflazione o distruggere i mercati altrui, ecco, sono tutte idee che si potrebbero discutere nella Nuova Camaldoli del Terzo Millennio.

Altro problema sono i giovani che non trovano lavoro per colpa di una cattiva formazione secondaria e universitaria, che è stata pensata per dare lavoro alla proletarizzazione degli insegnanti piuttosto che per fornire occasioni serie agli studenti.

Noi abbiamo creato una gioventù del consumo cospicuo – «non voglio che mia/o figlia/o abbiano le mie stesse privazioni». Se la persona è un tutto il consumismo giovanile ha distrutto la stessa identità di questa dimensione della vita. Cosa fare, praticamente?

La cooperazione, in questo senso, potrebbe dare alcune risposte: cooperative di giovani, fiscalmente ben trattate, e che possano accedere a finanziamenti legati ad una specifica entità finanziaria, pubblico-privata, una sorta di Cassa Depositi e Prestiti della società.

Bene comune significa la libertà del soggetto che si confronta, ogni giorno, con la libertà di altri uomini e donne. È la ricerca di un punto di contatto reale tra i vari gruppi sociali, che la degenerazione postmoderna del capitalismo ha separato. Gli imprenditori e i lavoratori, i giovani e i vecchi, i poveri e i ricchi, sono “gruppi” che oggi si vedono impegnati in un “gioco a somma zero” nei confronti degli altri, di tutti gli altri.

È un errore prima spirituale e culturale, ma è anche un errore tecnico e economico. Ogni attività sociale dovrebbe essere, da questo punto di vista, insieme più libera e più socializzata.

Ricordo ancora il discorso di dimissioni del Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, pronunciato il 25 aprile 1992, XLVII anniversario della Liberazione. Una data emblematica che rappresenta la fine della Repubblica dei Grandi Uomini Politici. Egli affermò:

“Concludo così sette anni che sono stati difficili non per me o non solo per me, ma anche per il Paese. Sette anni in cui tante cose sono state cambiate ed in cui mi è stato assicurato il privilegio di essere testimone di grandi cambiamenti all’Est, ma io mi auguro anche all’Ovest adesso. Sette anni in cui ho cercato con il silenzio prima, con la parola poi, con gli atti, con gli scritti, con i comportamenti di servire il mio Paese: vi sono riuscito? non vi sono riuscito? Non spetta a me giudicarmi. Io non ho messaggi da lanciarvi e non ho né forza politica, né rappresentanza morale tali da pretendere di lasciarvi testamento. Ai giovani io vorrei dire però di amare la Patria, di onorare la Nazione, di servire la Repubblica, di credere nella libertà e di credere nel nostro Paese. A tutti voi voglio dire di avere fiducia in voi stessi. Questo è un Paese che non sarà una grande potenza politica, che non sarà una grande potenza militare e forse questo è una benedizione di Dio, ma è un Paese di grande cultura, di grande storia, è un Paese di grandi energie morali, civili, religiose e materiali. Si tratta di saperle mettere assieme e si tratta di fondare delle istituzioni che facciano sì che lo sforzo di ognuno vada a vantaggio di tutti”.

Ed in merito alle origini della nostra Repubblica rammentata da Cossiga, ricordo l’8 settembre 1943. Sono cresciuto, in fretta, in un momento storico difficile ma intriso degli ideali della Resistenza in maniera così forte e radicata che, per me, la memoria storica è rivivere quotidianamente anche fatti e vicende strettamente personali.

Però con profonda amarezza e indignazione, riscontro la totale assenza – in questo preciso momento storico che ci apprestiamo ad affrontare caratterizzato a livello globale dalla guerra, dalla conseguente crisi energetica e a livello interno dalle prossime tornate elettorali – di celebrazioni che riportano alla mente i grandi ideali di Libertà, Pace, Uguaglianza tanto declamati ed invocati qualche anno fa.

Ritengo sia davvero episodio gravissimo e provocatorio, che tra i candidati attualmente in corsa si riscontri una totale assenza di amor patrio e di memoria storica; entrambi valori universali che prescindono dal movimento per il quale si corre politicamente.

Un’assenza che parla di un Paese poco intenzionato a fare i conti con la propria storia e con un ceto politico di bassi profilo e spessore nonché inetto. Quanto questo si ripercuota nel nostro presente è fuori di dubbio e non è un caso ma, mia palese intenzione squarciare il velo spronando le coscienze a fronteggiare questa tragedia di vuoto e stupidità istituzionale.

L’8 settembre è una giornata memorabile che merita rispetto profondo per i valori e i sentimenti ad essa connessa tanto più in questo momento storico che richiede tracciato un percorso nella coscienza collettiva che insegni il ripudio dell’indifferenza e di ogni forma di estremismo, per costruire una società basata sul rispetto della dignità umana.

Le mancanze di taluni esponenti politici in questo periodo, per me sono ignobili provocazioni, che non possono essere additati come episodi isolati, bensì vanno posti in cruda evidenza. Ritengo, inoltre, vada mantenuta alta l’attenzione affinché le giovani generazioni continuino a coltivare la memoria e la verità storica, le sole in grado di sconfiggere ogni atteggiamento connesso all’odio, al razzismo e alla violenza.

Auspico che si possa tornare a far riflettere le persone sui veri valori della libertà, del rispetto e della tolleranza, che sono conquiste che devono essere difese nell’esclusivo interesse di una civiltà a misura d’uomo, idonea a concepire e rendere la cultura della pace e della giustizia il vero tesoro dei popoli evoluti, liberi e democratici.

Oggi qualcuno discute sulla necessità di festeggiare ancora il 25 aprile 1945. Mi chiedo: ma costoro non si rendono conto che i loro “avi” IERI sono stati distrutti da coloro i quali, i predetti OGGI non fanno altro che servire facendo a gara con la controparte, sia a livello nazionale, che internazionale e geopolitico?



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