“Affrontare i problemi globali richiede un nuovo ‘volume’ e una nuova ‘qualità’ della cooperazione da parte degli Stati”. Una citazione alta e a tono con chi è stato premiato “statista dell’anno” da Kissinger. Con il discorso di New York, il presidente del Consiglio lascia nelle mani del suo successore un lascito chiaro e diretto sugli assi portanti su cui si dovrà (o dovrebbe) continuare a reggere il ruolo dell’Italia nel mondo
È un giudizio opportuno e doveroso ma forse insufficiente a descriverne la grandezza, ma si potrebbe dire che il discorso di Mario Draghi all’Assemblea generale delle Nazioni Unite sia stato una specie di legacy del suo operato proiettata anche su di un futuro per ulteriori impegni al servizio dell’Europa e delle relazioni transatlantiche.
Nel momento in cui gli italiani si apprestano a eleggere un nuovo parlamento e nell’attesa di un nuovo governo (auspicabilmente entro i primi giorni di novembre), il presidente del Consiglio è volato a New York. Non soltanto solo per adempiere a un “rito”, ovvero i discorsi dei leader di tutti gli Stati che fanno parte delle Nazioni Unite (e che da due anni non si tenevano in presenza a causa della pandemia). Ma anche per rimarcare alcuni punti fermi della politica estera italiana. Lasciando dunque un implicito messaggio, contenente chiare indicazioni, a colui (o colei) che gli succederà a Palazzo Chigi.
Ovviamente Draghi non ha potuto evitare di cominciare dalla guerra in Ucraina, rimarcando con assoluta chiarezza che l’Italia è schierata senza alcuna ambiguità al fianco di Kiev. Secondo il presidente del Consiglio, le sanzioni stanno funzionando, e anzi faranno sempre più male all’economia russa. Il punto chiave ribadito da Draghi – e forse poco sottolineato dai vari analisti e commentatori – è la palese violazione del diritto internazionale da parte della Russia: l’invasione dell’Ucraina ha coinciso con il superamento di una “linea rossa” che non poteva essere tollerato dal resto della comunità internazionale.
Un principio chiave che ha fatto il paio con il richiamo del leader italiano all’importanza del multilateralismo, in una fase di estrema difficoltà per le relazioni internazionali e la ricerca di soluzioni condivise. Sicuramente una dichiarazione dovuta in un contesto come quello del Palazzo di Vetro, ma che ha permesso a Draghi di rivendicare – con giustificato orgoglio – i buoni risultati ottenuti dal G20 durante la presidenza italiana del 2021, indubbiamente l’edizione più efficace e concreta da molti anni a questa parte (e che non verrà sicuramente superata quest’anno dalla Presidenza indonesiana, che fino ad ora non ha praticamente lasciato traccia). Che fare, allora, per salvare il multilateralismo? Secondo Draghi bisogna innanzitutto evitare le divisioni tra Nord e Sud del mondo; il che, letto tra le righe, significa cercare di chiudere la frattura sempre più ampia tra l’Occidente e quel “resto” di Paesi che fanno capo alla Cina, fautore nel lungo periodo di un ordine globale alternativo.
Ma il presidente del Consiglio non si è dimenticato di menzionare anche alcune priorità specifiche della politica estera italiana, citando esplicitamente l’importanza del Mediterraneo e delle partnership che il nostro Paese dovrebbe approfondire con i Paesi della sponda meridionale. Si tratta forse della regione più importante per la nostra politica estera, e che meglio ci può consentire di mettere in atto le nostre potenzialità di media potenza internazionale per trarne vantaggi sia dal punto di vista della sicurezza sia dell’economia.
Infine, non si può non sottolineare una sorta di “omaggio” riservata da Draghi a Mikhail Gorbaciov, scomparso da poco, citandone la frase “Affrontare i problemi globali richiede un nuovo ‘volume’ e una nuova ‘qualità’ della cooperazione da parte degli Stati”. Una citazione “alta” e a tono con chi è stato premiato “statista dell’anno” da Henry Kissinger, uno degli ultimi esponenti della politica estera novecentesca. Con il discorso di New York, Draghi consegna dunque nelle mani del suo successore un lascito chiaro e diretto sugli assi portanti su cui si dovrà (o dovrebbe) continuare a reggere il ruolo dell’Italia nel mondo.