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Il voto sarà uno spartiacque per la nostra politica estera. La versione di Borghi (Pd)

Non servono particolari retroscena, né dossier misteriosi, per rivelare ciò che è sotto gli occhi di tutti: la particolare predilezione di Salvini verso il Cremlino, la storica affezione di Berlusconi verso Putin, l’amicizia strutturata di Meloni per Orbán. La coalizione di destra ha in mano il biglietto del treno per l’Est. Scrive Enrico Borghi, responsabile sicurezza del Partito democratico, per il quale è candidato al Senato nel collegio Piemonte P-02, e membro del Copasir

È dal 1976, dalla famosa intervista di Giampaolo Pansa nella quale Enrico Berlinguer dichiarò di sentirsi più al sicuro sotto l’ombrello della Nato piuttosto che sotto quello del Patto di Varsavia, che non si assisteva a una campagna elettorale così polarizzata in materia di politica estera.

Per oltre 40 anni, infatti, il posizionamento atlantico ed europeista dall’Italia era stato acquisito dalle forze politiche in campo, come un autentico tessuto connettivo.

Anche nell’era della bipolarismo muscolare tra Silvio Berlusconi e il centrosinistra, la gara tra schieramenti era stata a chi si accreditava di più come alfiere euroatlantico rispetto all’altro. Una stagione archiviata.

Il 25 settembre 2022 si presenta piuttosto come uno spartiacque, in materia di politica estera. E le parole di Mario Draghi di venerdì, pesanti come macigni, lo hanno confermato. Con il loro voto, gli Italiani avranno davanti un bivio: da una parte un’autostrada che ci collega ai nostri tradizionali poli delle alleanze di questi decenni: Parigi, Berlino, Bruxelles, Washington. Dall’altra parte, una tangenziale che ci porta – via Balcani – a Budapest, a Varsavia e per qualcuno anche a Mosca.

Non servono particolari retroscena, né dossier misteriosi, per rivelare ciò che è sotto gli occhi di tutti: la particolare predilezione di Matteo Salvini verso il Cremlino, la storica affezione di Silvio Berlusconi verso Vladimir Putin, l’amicizia strutturata di Giorgia Meloni per Viktor Orbán con gli auspici benedicenti di Steve Bannon, connotano una coalizione di destra che nei fatti ha in mano il biglietto del treno per l’Est.

Gli esempi si sprecano, e non possono essere mitigati dall’inevitabile maquillage della campagna elettorale. Le passeggiate nella Crimea appena occupata dai Russi di Berlusconi nel 2014; il profluvio di dichiarazioni, magliette, linguaggio del corpo, azioni politiche di Salvini a sostegno del regime di Putin (fino alla clamorosa promozione di un vaccino inesistente, lo Sputnik, durante la pandemia, l’incredibile rinnovo del patto di collaborazione tra Lega e il partito di Putin a guerra iniziata e oggi la richiesta di eliminazione delle sanzioni che lo ha degradato al ruolo di influencer più che di leader politico).

La politica italiana si divide in politica estera in un momento drammatico della Storia europea, con la guerra a breve distanza dall’Italia. Sul piatto della bilancia della politica europea, l’Italia è diventata un ago. Il combinato disposto pandemia-guerra è stato finora affrontato, in sede europea, da diversi Stati sul piano elettorale. Spagna, Francia e Germania hanno scelto di rimanere nel solco delle leadership progressiste e riformiste. Serbia, Ungheria e recentemente Svezia hanno spostato la loro direzione verso il nazionalismo.

Se l’Italia dovrà continuare ad essere quella dell’immagine del treno di Kiev, oppure imboccare una sorta di “dimensione pre-balcanica” affascinata dal putinismo, lo decideranno gli elettori domenica prossima. Chi vi scrive, in proposito, non ha alcun dubbio. Ma un dato è certo: come fu per Brexit, anche qui non ci sarà la moviola per rimandare indietro il film in caso di esito non apprezzato. Le elezioni sono un bivio. È una volta imboccata una direzione, non si torna più indietro. Motivo in più per rifletterci bene.


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