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Torna la guerra nel Tigray. Etiopia senza pace

La ripresa dei combattimenti in Etiopia è un tema su cui anche l’Italia pone attenzione. La destabilizzazione nel Tigray è di fatto una destabilizzazione all’interno della regione strategica del Corno d’Africa. Nel dossier, sia Onu, sia Ue e sia Usa sono in difficoltà e i negoziati rischiano di essere definitivamente cancellati. E la pace si allontana

La scorsa settimana sono ripresi i combattimenti nella regione settentrionale etiope del Tigray, mettendo fine a un cessate il fuoco delicatissimo mediato da Nazioni Unite, Ue e Stati Uniti, che era riuscito a restare in piedi per alcuni mesi. Le speranze di una risoluzione pacifica della guerra civile del Paese, già complicate anche durante la parziale tregua, tornano ad allontanarsi.

Il conflitto in Etiopia è iniziato quasi due anni fa e vede da un lato il governo federale guidato dal primo ministro etiope Abiy Ahmed, dall’altra il Fronte di Liberazione del Popolo del Tigray (TPLF) — che da allora Addis Abeba ha designato come organizzazione terroristica, sebbene i tigrini siano parte della storia del Paese. Finora sono morte circa mezzo milione di persone e più di 1,6 milioni sono state sfollate.

“Il rispetto della tregua negli ultimi cinque mesi ha salvato innumerevoli vite”, aveva dichiarato non più di una settimana fa il Segretario di Stato americano, Antony Blinken, davanti alla ripresa delle ostilità. “Un ritorno al conflitto attivo comporterebbe sofferenze diffuse, violazioni dei diritti umani e ulteriori difficoltà economiche”, avvertiva.

L’appello di Washington, seguito da una richiesta di nuove mediazioni di Unione Europea e Regno Unito, sono rimasti inascoltati. Droni dell’esercito etiope hanno colpito Mekelle — e tra gli obiettivi ci sono diversi civili, con l’Unicef che ha denunciato e condannato la morte di alcuni bambini. I combattenti del TPLF si sono spinti a circa 50 chilometri a sud dal Tigray verso l’Amhara e a sud-est verso l’Afar, mettendo in fuga molte persone e tornando a pressare le linee federali.

Sia Addis Abeba che Mekelle incolpano il fronte opposto per la prima mossa che ha riaperto gli scontri. Entrambi dichiarano di aver agito solo per difesa. Il governo etiope dice di aver intercettato un rifornimento di armi diretto ai tigrini dal Sudan, il 24 agosto: da lì la situazione sarebbe precipitata, ma il TPLF nega, sostiene sia stata una scusa per nuovi attacchi del governo federale.

Nel frattempo, il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite (PAM) ha dichiarato che le autorità del Tigray hanno rubato 570.000 litri di carburante dai magazzini nella regione mercoledì scorso, mettendo a rischio le operazioni umanitarie. Secondo le Nazioni Unite, le scorte di cibo, medicine e carburante nel Tigray sono gravemente insufficienti. Nel Tigray si profila una vera e propria carestia, mentre l’Africa orientale sta vivendo la peggiore siccità degli ultimi 40 anni.

Nel frattempo, la World Bank ha concesso 300 milioni di prestito speciale per la ricostruzione al governo Abiy, con una decisione che è stata anche oggetto di critiche. Per esempio, secondo Michael Rubin dell’American Enterprise Institute, la linea finanziaria sta offrendo un’ancora di salvezza ad Addis Abeba, e anche a questo si lega la decisione di Abiy di interrompere i colloqui per la pace e rilanciare la campagna militare.

Stanno svanendo le speranze: non è vicino un Tigray sulla via della rappacificazione, che invece era parte dei ragionamenti attorno alla crisi in Etiopia dall’inizio del 2022. A gennaio il governo etiope aveva infatti rilasciato i leader dell’opposizione tigrina dalla prigione e aveva manifestato la volontà di dialogare con il TPLF. In una dichiarazione di due settimane fa, Addis Abeba ha comunque nuovamente segnalato il suo intento di pace “e di ripristino dei servizi nella regione”.

Ma a questi sono seguiti nuovi bombardamenti. E forse le dichiarazioni negoziali sono parte di una comunicazione che Abiy ha impostato per recuperare terreno sul piano dell’immagine: un tempo il primo ministro etiope era considerato un campione di governance dall’Occidente (aveva anche ricevuto il Premio Nobel per la Pace), e un importantissimo attore per la stabilità regionale.

In risposta alle proposte del governo, il leader del TPLF, Debretsion Gebremichael, ha dichiarato che la sua parte è pronta a “negoziare in buona fede”, ma anche che il processo di pace “previsto” dal mediatore dell’Unione Africana, l’ex presidente nigeriano Olusegun Obasanjoè “destinato a fallire” perché troppo favorevole ad Addis Abeba. Il TPLF ha chiesto al governo federale di ripristinare i servizi essenziali e l’accesso umanitario alla regione prima dell’inizio dei colloqui, mentre il governo rifiuta le precondizioni — e il furto di carburante sarà un elemento di ulteriore divisione.

In un op-ed per Africa Report uscito la scorsa settimana, il portavoce del TPLF ha spiegato che un cessate il fuoco negoziato e una soluzione politica “non sono affatto più vicini a essere raggiunti ora di quanto non lo fossero al momento della nomina di Obasanjo, un anno fa”. L’accusa che i tigrini alzano contro l’Unione Africana è di essere “un apologeta di un regime brutale che cerca di affamare e bombardare il suo stesso popolo per sottometterlo”.

Sebbene il TPLF si sia appellato al governo statunitense, anche gli sforzi dell’amministrazione Biden per porre fine al conflitto si sono rivelati inefficaci. Il 2 agosto, il nuovo inviato speciale degli Stati Uniti per il Corno d’Africa, Mike Hammer, si è unito con l’omologa europea, Annette Weber, per una visita di un giorno in Tigray. Speravano di facilitare l’inizio dei colloqui e hanno chiesto il “rapido ripristino” dei servizi essenziali in Tigray. Il governo federale etiope ha criticato gli inviati per aver fatto eco alle richieste del TPLF. Da lì si sono riaperti i combattimenti.

“Se il governo federale fosse disposto a riprendere i servizi [al Tigray] e se la leadership del Tigray fosse disposta a incontrarsi e a discutere le proprie differenze in occasione dei colloqui convocati dall’Unione Africana e da altri partner africani, ciò sarebbe d’aiuto”, ha spiegato William Davison, analista dell’International Crisis Group, a Foreign Policy. Ma la maggior parte degli analisti – incluso Davison – teme che ci siano poche prospettive di progressi verso la riconciliazione e la pace in tempi brevi.

La destabilizzazione etiope è un fattore di primaria attenzione anche per l’Italia. Il Paese, oltre ad avere ancora connessioni di vario genere con Roma, è parte della regione del Corno d’Africa, una delle porte del Mediterraneo allargato in cui l’Italia proietta i propri interessi di politica internazionale. La Farnesina ha diffuso nei giorni scorsi una nota in cui si dichiara “preoccupata per i rinnovati combattimenti” e “invita tutte le parti a compiere ogni sforzo per l’immediata cessazione delle ostilità, l’accesso umanitario e la soluzione pacifica della crisi”. “Gli aiuti umanitari non possono essere utilizzati per scopi militari contro i civili”, sottolinea l’uscente governo Draghi.

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