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Contestare il primato del diritto europeo ci confina in un club pericoloso

Mettere in discussione la primazia del diritto dell’Unione europea su quello italiano vuol dire finire nel mirino di chi aspetta solo un passo falso da parte della nuova maggioranza. Una mossa che può relegarci nello scomodo club di Ungheria, Romania e Polonia, in rotta di collisione con Bruxelles proprio ora che Giorgia Meloni manda messaggi rassicuranti agli alleati europei e internazionali

A Bruxelles e nel resto d’Europa stanno misurando ogni microscopico passo della nuovissima maggioranza. Esauriti gli articoli sul post-fascismo, l’attenzione si è spostata sulle possibili red flag che un governo di destra può agitare sotto il naso degli interlocutori internazionali. In realtà non sono molte: la questione dei migranti non è un’emergenza come nel 2015, i vincoli di bilancio sono sospesi, la spesa in deficit è all’ordine del giorno, a causa della crisi energetica e grazie alla tenuta dei conti del governo Draghi, confermata nell’aggiornamento della Nadef appena pubblicato.

Però ce n’è una, che si può vedere a occhio nudo dai palazzi delle istituzioni comunitarie e dalle capitali dei Paesi dell’Unione, come ci aveva anticipato l’ambasciatore Rocco Cangelosi. Si tratta del primato del diritto nazionale su quello comune europeo. “La tentazione di affermare questo primato”, per usare la frase di Giuliano Amato nel suo messaggio di congedo alla Corte Costituzionale, è stata ribadita da Francesco Lollobrigida, capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, nella sua intervista a Repubblica.

Ieri su queste pagine il professor Giovanni Guzzetta ha spiegato che si tratta di una tempesta in un bicchier d’acqua, perché in determinate materie il diritto italiano resta primus nella gerarchia delle fonti giuridiche. È vero, ma questa sottigliezza non è chiara nel messaggio del partito di Giorgia Meloni (non suo: sui programmi e le riforme la leader ha scelto un rispettoso silenzio dalla notte del voto in poi).

Il rischio, assai grave, è che questo messaggio metta l’Italia in un club oggi composto da Romania, Ungheria e Polonia – Paesi che hanno stravolto i propri ordinamenti indebolendo l’autonomia della magistratura e mettendosi in rotta di collisione con l’Unione europea – senza che ve ne sia una vera ragione, né politica né utilitaristica. Capisco che la voglia di rispondere allo scivolone di Ursula von der Leyen sugli “strumenti” per correggere la rotta dell’Italia fosse forte. Ma non con un’affermazione altrettanto spericolata.

Come spiega il costituzionalista Stefano Ceccanti, deputato uscente del Pd, “non esiste Unione europea senza primato del diritto comune nelle materie in cui si accetta di condividere la sovranità”. E come mi ha confermato il prof. Oreste Pollicino, ordinario di Diritto costituzionale italiano ed europeo all’Università Bocconi, “per far sì che il diritto comunitario non sia più sovraordinato a quello italiano andrebbe cambiato non solo l’art. 117 della Costituzione, introdotto dalla riforma del 2001, ma anche l’11, che disciplina la ‘limitazione di sovranità’”. C’è un problema: si tratta di uno di quei principi ritenuti inviolabili della Carta, fuori dal potere costituito.

Tra le materie che non possono essere soggette a revisione costituzionale, infatti, non c’è solo il divieto esplicito di cambiare la forma repubblicana (art. 139), ma per la Consulta esistono una serie di limiti impliciti – non definiti in modo puntuale proprio per essere “aggiornati” man mano che la società evolve – e tra questi rientra il famigerato art. 11, citato spesso a sproposito per proclamare che “l’Italia ripudia la guerra” dimenticando la seconda parte in cui si prevede l’adesione a organizzazioni internazionali che promuovano “pace e giustizia tra le Nazioni”. Proprio come Nato e Ue. Oltre a modificare la Costituzione, andrebbero poi sostituiti i giudici della Consulta, oggi compatti sull’interpretazione restrittiva. Ma cinque sono nominati dal Presidente della Repubblica, cinque dalle alte magistrature, e solo cinque dal Parlamento in seduta comune, dove servono i tre quinti dei voti.

Usare come clava la sentenza della Corte costituzionale tedesca “contro” la Bce, poi, è un’argomentazione comoda ma fallace. Il discorso è lungo, ma possiamo riassumerlo in tre punti: Merkel e Scholz (all’epoca ministro delle Finanze) precisarono in una lettera alla Commissione che il loro governo riconosce il primato del diritto Ue e che l’unico tribunale competente a dirimere le controversie sulle istituzioni comunitarie è la Corte di Giustizia europea; il Budestag fu soddisfatto dalla risposta di Christine Lagarde sull’acquisto dei titoli di Stato, chiudendo di fatto la questione; senza questi due elementi la Germania avrebbe subìto una procedura d’infrazione (altro che “loro possono fare come vogliono”).

Eppure, aggiunge il prof. Pollicino, molti danni sono stati fatti. La corte tedesca, pur non essendo né sovranista né populista, si è comportata da cattiva maestra. Nell’affermare di essere guardiana dei valori democratici non solo tedeschi ma di tutta l’Europa, ha aperto uno spiraglio per epigoni che non hanno gli stessi anticorpi della Germania. “Gli Stati fondatori dell’Unione hanno un onere maggiore rispetto a chi si è aggiunto negli ultimi anni. Decisioni simili possono essere manipolate in malafede da chi vuole trasformare le fragili democrazie dell’Est Europa in sistemi illiberali”.

Azzardo una conclusione. La questione del primato del diritto comunitario è stata al centro di aspre battaglie negli anni successivi alla crisi dell’euro (2010-11): Troika, Fiscal Compact, Mes, visti come trappole dai Paesi mediterranei; Quantitative Easing, Tltro, Pepp, considerate ingiustificate regalìe dai falchi del Nord. Oggi, questi programmi non sono più attuali: i parametri di Maastricht sono sospesi almeno fino al 2024, si parlerà di Pnrr fino al 2026 (e oltre?), la Bce ha creato un “ombrellino” per proteggerci dalla speculazione sui titoli di Stato. Dunque non serve a molto battagliare per riprendersi pezzi di sovranità già consegnati a Bruxelles. Forse tra un anno le cose cambieranno, ma ora, che tutta l’Europa ci guarda, ha davvero senso inerpicarsi per una strada così pericolosa?

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