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Al green italiano manca un vero piano industriale. L’appello di Muroni

“Bisognerebbe superare questa idea per cui nel nostro Paese da una parte ci sono gli Unni che vogliono ricoprire il territorio di energie rinnovabili e dall’altra ci sono i duri e puri che difendono il paesaggio”, sottolinea Rossella Muroni, candidata del centrosinistra, a Formiche.net. E sulle sanzioni…

“Abbiamo il paradosso che in questo Paese gli imprenditori dell’eolico si vedono approvato il progetto dopo cinque anni e si trovano magari a issare un rotore che nel frattempo è stato superato dal punto di vista tecnologico. L’allarme burocrazia nel green è lanciato da Rossella Muroni, candidata alla Camera per il centro-sinistra, ossia i municipi V e VI di Roma, che affida a Formiche.net un ragionamento complessivo sulla transizione ecologica.

Partiamo dall’ecologismo pragmatico: grazie ad un suo emendamento è possibile il fotovoltaico sui tetti nei centri storici sugli edifici non vincolati. Un punto di arrivo o un punto di partenza?

È quello che siamo riusciti a fare, in particolare negli ultimi anni: portare a casa dei provvedimenti puntuali. Quello che manca è un vero piano industriale di sviluppo delle rinnovabili che raduni le imprese che si occupano di energie rinnovabili in particolare. Abbiamo fatto una proposta molto precisa al governo e alla politica: ci sono 80 gigawatt di potenza installati per renderci realmente competitivi sulla produzione di energie rinnovabili al 2030 e quindi raggiungere davvero quegli obiettivi che abbiamo sottoscritto a livello europeo. Per questo citavo quel mio emendamento, ma ne potrei citare anche uno sul fotovoltaico galleggiante, uno sull’acqua e sulla facilitazione dell’eolico.

Ma…

Però, come dire, manca un progetto generale di sviluppo: si riesce a far passare il singolo emendamento, ma poi ci vuole ben altro. Peraltro, se vogliamo essere in asse con l’Unione europea, faccio un’altra osservazione: tutti noi abbiamo esaltato il piano di Repower sulle energie rinnovabili. Lì c’è scritta una cosa molto precisa che interroga e sfida il nostro Paese: la cosiddetta burocrazia dei permessi per l’installazione delle fonti rinnovabili va da un minimo di cinque a un massimo di dieci anni. Invece dovrebbero essere massimo due anni, che è un tempo compatibile non solo con l’impresa economica, ma anche, mi viene da dire, con l’innovazione tecnologica.

Qualche esempio?

Abbiamo il paradosso che in questo Paese, ad esempio, gli imprenditori dell’eolico si vedono approvato il progetto dopo cinque anni e si trovano magari a issare un rotore che nel frattempo è stato superato dal punto di vista tecnologico, ma naturalmente non gli viene minimamente in mente di riprendere l’iter autorizzativo per fare la variante del progetto. Questo è un problema. Camminiamo col freno a mano tirato?

La scorsa settimana il Cdm ha sbloccato due impianti: geotermico ed eolico bloccati da sovrintendenze. Sulla strada della transizione c’è anche la lentezza burocratica?

Assolutamente. Porto esempi paradigmatici come l’impianto geotermico in provincia di Siena, un impianto che dal punto di vista delle emissioni e dell’efficienza è un’innovazione assoluta. Un brevetto italiano, un’eccellenza italiana: la cosa molto particolare è che c’era stato un asse positivo. Dall’amministrazione locale fino al ministero della transizione ecologica si erano ottenuti tutti i permessi. La Sovrintendenza lo ha bloccato e quindi si è arrivato al Consiglio dei ministri. Però non può essere questo l’iter che noi seguiamo per sbloccare i progetti in Italia, cioè diventa veramente barocco come sistema. D’altro canto noi, tutto quello che sta accadendo sul gas e sulla nostra dipendenza energetica, lo siamo ormai leggendo sulle nostre bollette. Quindi io credo che bisognerebbe superare questa idea per cui nel nostro Paese da una parte ci sono gli Unni che vogliono ricoprire il territorio di energie rinnovabili e dall’altra ci sono i duri e puri che difendono il paesaggio.

Niente più ideologia?

Tutti abbiamo a cuore il valore del paesaggio. Io sottolineo solo che il paesaggio italiano è un paesaggio trasformato dall’uomo. Cioè le Cinque Terre non sono un paesaggio naturale, per intenderci. Quindi c’è un elemento di coabitazione con gli insediamenti umani che va tenuto assolutamente in debito conto. Di contro, negli anni anche l’impatto visivo, l’efficienza e le performance estetiche delle energie rinnovabili sono migliorate tantissimo. Sicuramente serve un piano nazionale di energia e clima che ci dia un indirizzo preciso, nel senso che l’attuale non è aggiornato dal 2018, quindi facile comprendere come nel 2022 sia praticamente lettera morta perché nel frattempo è cambiato il mondo. Ma noi dovremmo anche sbloccare tutto ciò che è eolico offshore. È incredibile che un Paese che ha una penisola e mezza nel Mediterraneo abbia l’unico impianto eolico a Taranto. E a proposito, anche lì si era fatta sentire la Sovrintendenza per difendere lo skyline di Taranto. Ma non è tutto.

Ovvero?

L’altra storia paradigmatica è quella dei sette pali che dovranno essere issati sulla diga foranea di Genova. La stessa sovrintendenza che ha dato l’ok a una diga davanti a Genova, poi boccia le pale eoliche. Mi sfugge perché una pala eolica ha più impatto visivo di una diga. Sinceramente però, quello che manca è la programmazione che ci dia degli obiettivi precisi, oltre al riconoscimento del fatto che se vuoi difendere il paesaggio, naturalmente devi guardare alla qualità del singolo progetto. Però allora iniziamo ad individuare queste benedette aree idonee. Iniziamo a utilizzare gli edifici pubblici, dalle scuole ai municipi, per mettere il fotovoltaico. Iniziamo a fare eolico off shore perché poi se vuoi ridurre la quantità di impianti devi aumentarne la potenza.

Un’altra sua proposta è facilitare le comunità energetiche. Come?

Io non capisco perché le tante case popolari che abbiamo nel nostro Paese siano una realtà molto scadente dal punto di vista della qualità dell’abitare. Ecco, lì tu dovresti realizzare delle vere e proprie comunità energetiche in cui i cittadini producono e auto consumano energia e magari la vendono pure al vicino. Per contro la crisi climatica, con l’abbattimento dei costi delle bollette, è centrale perché altrimenti l’ambientalismo rimarrà sempre la cultura di quelli che se lo possono permettere. Invece la sfida, secondo me, è dimostrare che abbiamo la potenza e la credibilità per rispondere alle crisi dell’oggi, sociale ed energetica.

In questo senso il problema della lentezza burocratica c’è il rischio che impatti sul Pnrr e anche su tutti i progetti ad esso connessi?

Sicuramente c’è un problema di lentezza ma anche di competenze, cioè il Pnrr deve diventare anche una grande occasione per avvicinare alla pubblica amministrazione delle competenze innovative rispetto a decisioni che debbono essere prese sui singoli progetti. Certo, il fatto che la Pubblica amministrazione in questo Paese abbia smesso di assumere da anni non aiuta. Quello potrebbe essere, come dire, un bacino in cui tu metti a disposizione del Paese e al suo servizio quelle competenze che poi, paradossalmente, nelle università formi e realizzare anche quei cluster di decisione amministrativa che sono necessari. Quando hai un progetto da realizzare dovresti perseguire anche le linee dell’Unione Europea, per esempio garantire la partecipazione, valutare l’impatto sociale dei progetti. Fare tutte queste cose vuol dire avere delle competenze e noi le competenze ce le abbiamo perché, ripeto, le nostre università formano i ragazzi e le ragazze a questo tipo di professionalità. Solo che poi non trovano, paradossalmente, il luogo dove portarle a terra. Il famoso blocco delle firme passa anche per il fatto che le cose che noi stiamo chiedendo con il Piano nazionale di ripresa, resilienza e in generale con la transizione ecologica, oggettivamente sfuggono a una pubblica amministrazione che è stata formata nel Novecento.

Un’ultima cosa su politica e propaganda. C’è un suo tweet a proposito delle sanzioni alla Russia, dove ha scritto di togliere i sondaggi a Salvini.

È questa la mia grande preoccupazione: l’ho voluto esemplificare con una battuta che vale per Salvini, ma vale per molti altri. Secondo me questa idea per cui la politica si fa con un tweet che commenta un sondaggio è un meccanismo abbastanza pericoloso, perché si perde il contatto non solo con la realtà del Paese, ma anche rispetto a dove ti stai muovendo. C’è questa idea per cui nelle elezioni italiane poi si perde sempre in termini di credibilità: non mi piace il gioco a chi fa il tweet più provocatorio, in questo caso su un tema drammatico come quello delle sanzioni e della guerra. Anche perché poi le stesse forze politiche che mettono in discussione il tipo di sanzioni, dicono che le dobbiamo rivotare in Parlamento. E quindi il tweet che lo fai a fare?

@FDepalo

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