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Così l’Italia può aiutare l’Iraq (Erdogan permettendo). L’analisi di Arpino

Italian soldiers in Iraq

La situazione in Iraq è ancora incerta, ma l’Italia, al comando della missione Nato, ha la possibilità di giocare un ruolo fondamentale quale elemento di stabilizzazione, grazie anche al credito di fiducia raccolto negli anni dai nostri militari. L’analisi per Airpress del generale Mario Arpino, già capo di Stato maggiore della Difesa

“L’Italia dovrebbe cercare di capitalizzare la fiducia raccolta da anni di impegno in Iraq per un progetto di pacificazione e stabilizzazione del Paese”. Una posizione che non lascerebbe la regione nelle mani dell’attivismo di Erdogan, sempre più presente. Ne è convinto il generale Mario Arpino, già capo di Stato maggiore della Difesa, che Airpress ha raggiunto per commentare le recenti evoluzioni nel Paese mediorientale dopo gli scontri avvenuti a Baghdad tra le forze di sicurezza irachene e i sostenitori dell’imam al Sadr.

Generale, qual è la situazione sul campo in Iraq?

La situazione generale del Paese è difficile da comprendere, anche perché è complesso riuscire a qualificare bene le divisioni tra sunniti e sciiti, con questi ultimi in particolare che sono divisi in almeno quattro o cinque partiti. Inoltre, non tutti sono filo-iraniani, e dobbiamo ricordare che molti sciiti hanno partecipato alla guerra di Saddam contro l’Iran. Tra questi sciiti patriottici possiamo annoverare anche Ali al-Sistani, sempre stato tra i meno favorevoli agli iraniani. Lo stesso Moqtada al-Sadr, che pure ha studiato a Qom come al-Sistani, ha sempre oscillato tra le due posizioni, e adesso la sua posizione è meno chiara che mai. Alcune ipotesi addirittura vogliono che si sia recato a prendere istruzioni dallo stesso presidente iraniano Ebrahim Raisi, cosa che a me sembra strana.

Come mai?

Pur essendo sempre stato un filoiraniano convinto, in molte occasioni si è comportato diversamente, soprattutto nelle relazioni con gli altri partiti sciiti iracheni. Al-Sadr prima di questa crisi poteva dirsi il vincitore delle elezioni, con 76 seggi su circa trecento, e avrebbe potuto far valere il suo peso in Parlamento. Invece non è riuscito a mettersi d’accordo con i partiti pro-Iran, pur essendo anche lui un filoiraniano. Probabilmente la questione verte più su questioni personali tra lui e il primo ministro Mustafa al-Kazemi. Potrebbe anche essere che dietro a questo ritiro di al-Sadr dai palazzi occupati nella Zona Verde ci sia l’intervento dell’ayatollah al-Sistani, figura influente su tutti gli sciiti iracheni (quasi il 60% della popolazione). Io ritengo che ci vorrà ancora qualche giorno prima che la situazione si chiarisca. Comunque, resta di fatto che al-Sadr continua a essere all’origine di molte delle tensioni che affliggono l’Iraq da una ventina d’anni. Del resto, era lui a capo dell’esercito del Mahdi, che ha messo a ferro e fuoco tutto il sud del Paese, costringendo anche le nostre Forze armate a intervenire, soprattutto dopo l’attentato di Nassiriya e la battaglia dei Ponti.

In Iraq, la missione della Nato attualmente presente è al momento sotto il comando italiano. Com’è la situazione per i nostri militari?

Noi italiani, tutto sommato, siamo tendenzialmente ben visti. Al momento, inoltre, la missione è guidata da un bravissimo generale, Giovanni Iannucci, e ha a disposizione unità scelte delle nostre Forze armate. La decisione di restare in Iraq dopo il ritiro americano è stata molto bene accolta non solo in sede Nato, ma anche dagli iracheni, le cui autorità si sono mostrate molto favorevoli. Ci siamo guadagnati la fama di essere super partes e siamo tra i pochi occidentali che possono permettersi di circolare tranquillamente in diverse zone del Paese. In particolare, nella regione curda, di Erbil, dove lavoriamo con tranquillità addirittura con i turchi, che collaborano con noi nell’addestrare parte delle unità militari curde (cosa abbastanza singolare se si pensa che dall’altra parte del confine invece li bombardano). A mio avviso dovremmo cercare di capitalizzare questa fiducia per un progetto di pacificazione, anche se questo obiettivo è reso più complicato dall’attivismo di Erdogan.

In che senso?

Il presidente turco si è presentato ormai nella sua nuova veste di pacificatore, costantemente alla ricerca di nuovi spazi per ampliare la propria influenza. Anche questa volta si è proposto di fare da mediatore tra i quattro partiti sciiti (lui sunnita). I risultati di questa operazione sono ancora incerti, ma la presenza turca è destinata a giocare un ruolo sempre più importante in Iraq, sperando che non ingarbugli di più le cose.

Cosa dovrebbe fare, dunque, l’Italia?

Questa potrebbe essere la nostra occasione per procedere verso una pacificazione dell’Iraq, con un’azione seguita naturalmente dal supporto civile. Uno dei principali punti dove potremmo intervenire è, per esempio, la distribuzione dell’energia elettrica, un problema rimasto sospeso dai tempi del ritiro da Nassiriya. Personalmente, ritengo che con il ritorno dell’energia elettrica costante in tutto il Paese molti dei guai dell’Iraq verrebbero ridimensionati. L’Iraq non è un Paese come gli altri del Medio Oriente. Mediamente la gente è colta e laica, e la divisione confessionale è un problema recente, esasperato dalle interferenze dell’Iran. Per questo dovremmo cercare di porci in qualche modo come fattore di equilibrio, osservando con attenzione le mosse soprattutto di al-Sistani e attendendo le occasioni giuste per dare il nostro contributo.

Come commenta la possibilità di un aumento degli effettivi schierati per la missione e la possibilità di un’estensione dei suoi compiti?

Sicuramente la dimensione del nostro contingente, al netto delle altre forze alleate, è destinata a crescere. Questo aumento non ha però nulla a che fare con i disordini di questi giorni, ma era già stato previsto anche dal decreto missioni. Abbiamo appena assunto la leadership della missione, e dovremo far fronte al progressivo ritiro delle unità americane. L’aumento complessivo, poi, è dovuto anche al processo di razionalizzazione delle forze che la Nato schiera sui vari scenari, ed è finalizzato a migliorare l’efficacia e l’efficienza della missione, che pur essendo addestrativa ha nel tempo avuto diverse altre sfaccettature. Noi italiani abbiamo non solo addestrato i peshmerga, ma li abbiamo anche accompagnati operativamente per quanto riguarda le forze speciali. Nel futuro, quindi, un aumento di personale e, soprattutto, di mezzi sarà senz’altro necessario.



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