A meno di tre settimane dall’apertura delle urne, cosa bisogna auspicarsi dal voto del 25 settembre, quale esito è preferibile per riassorbire la crisi di sistema che avvolge l’Italia come un sudario da più di trent’anni? La rubrica di Carlo Fusi
Ma adesso, adesso che le carte sono praticamente tutte scoperte. Adesso che l’emergenza gas ha fatto irruzione nella campagna elettorale immergendo in un bagno (gelato ovviamente) di realtà fumisterie e promesse pindariche. Adesso che gli tutti gli allarmi democratici sono stati lanciati e le bicamerali tutte riproposte. Adesso che il centrodestra si gonfia ogni giorno di più e si divide allo stesso modo. Adesso che il centrosinistra si consolida rattrappendosi e il partito di Conte surfeggia sul reddito di cittadinanza scambiando l’onda per la terraferma. Adesso insomma, ossia a meno di tre settimane dall’apertura delle urne, cosa bisogna auspicarsi dal voto del 25 settembre, quale esito è preferibile per riassorbire la crisi di sistema che avvolge l’Italia come un sudario da più di trent’anni?
Tradotto in soldoni. È più auspicabile la vittoria netta di uno degli schieramenti in ballo oppure meglio un risultato che porti al “pareggio” e lasci spazio alla combinazione di alleanze in Parlamento? È difficile rispondere, eppure sarebbe sostanziale, l’unica vera forma di voto utile (per il Paese, non per le singole forze politiche) da suggerire al corpo elettorale. Proviamo a sceverare qualche dimensione di questa sorta di cubo di Rubik, senza pretese di discernimento ma con la consapevolezza della necessità d’analisi.
Per prima cosa, sondaggi alla mano, l’unica coalizione che può vincere se non stravincere è quella di centrodestra: lo dicono i numeri che parlano di un vantaggio di 16-19 punti sulla concorrenza. Se sarà così, inveire contro chi ha fatto quella scelta è non solo insensato ma pregiudizievole per l’equilibrio politico-istituzionale. In un sistema democratico, infatti, gli elettori hanno sempre ragione. L’avevano a quando innalzavano Silvio Berlusconi; l’avevano quando hanno fatto vincere Romano Prodi; l’avevano quattro anni fa quando promossero la valanga pentastellata. Se ora premieranno il centrodestra spianando a Giorgia Meloni la strada verso Palazzo Chigi, la cosa più sana è riflettere sulle ragioni del successo e prendere atto che la rabbia e lo scontento degli italiani ha trovato un nuovo sbocco.
Allo stesso tempo, perché anche queste sono le regole democratiche, pretendendo che la coalizione vincente si misuri con la prova del governo e con le sfide da far tremare i polsi che l’attendono. A partire dall’autunno-inverno del nostro scontento, dal pericolo di razionamento energetico, dalla bufera che investirà il comparto industriale. E poi vedere se il bastione regge oppure si dimostra di pasta frolla.
Il secondo aspetto è che, seppur altamente improbabile e con una forte dose di paradossalità, una “non vittoria” del centrodestra come fu quella di Pier Luigi Bersani potrebbe preludere alla necessità di un accordo tra le principali forze politiche per riproporre un esecutivo di larghe intese, fotocopia di quello guidato da Mario Draghi. In sostanza rientrerebbe dalla finestra quello che M5S, Salvini e Berlusconi hanno cacciato dalla porta. Per di più con le stimmate del Terzo Polo e l’appoggio di Fratelli d’Italia.
Quale delle due opzioni “conviene” all’Italia? Facciamo un passo indietro per inquadrare meglio la situazione. Dall’inizio degli anni Duemila, l’avvitarsi della politica su sé stessa e l’incapacità di trovare soluzioni praticabili ha portato all’emergere di premiership “tecniche” per appianare le contraddizioni che il Palazzo non riusciva a fronteggiare. In sostanza il premier tecnico doveva procedere bypassando i partiti ma costretto comunque ad avere il loro appoggio in Parlamento.
Quest’ultimo soffriva la situazione cercando in ogni modo di superare il vincolo esterno a sé stesso. Così il tecnico alla fine gettava la spugna, i partiti tornavano in auge magari sostenuti dal voto popolare, poi però la politica si dimostrava di nuovo incapace di procedere, arrivava un nuovo tecnico che però veniva boicottato e così via. Al di là di ogni giudizio di merito, le esperienze di Mario Monti prima e Mario Draghi dopo confermano il circolo vizioso.
Così stando le cose, la vittoria limpida e strutturata di uno schieramento sull’altro apparirebbe la auspicabile via d’uscita perché avviare un altro esecutivo “d’emergenza” con tutti dento o formato Ursula subito dopo aver chiesto agli italiani di esprimersi, apparirebbe come l’ennesima riprova di impotenza della politica. Riproponendo tra l’altro una formula che non solo ha un sapore di Prima repubblica, quando i partiti c’erano ed erano i bastioni del sistema, ma ha dimostrato di non funzionare pur promuovendo la figura di maggior prestigio, competenza e autorevolezza che ha il Paese: appunto SuperMario. Riproporre il bis di una esperienza non felice è la ricetta giusta per riassestare il sistema-Paese?
Non che l’auspicio della vittoria di uno specifico schieramento sia la bacchetta magica. Se ci riferiamo al centrodestra, infatti, più che di una coalizione sarebbe più giusto parlare di un patchwork che mette insieme pezze di colore non combinabili: vedi sanzioni, politica estera, giustizia, economia. Su tutti, però, prevale un aspetto che è davvero straniante. Per essere credibile il centrodestra dovrebbe infatti presentarsi agli elettori dicendo che se vince fa il governo ma che se poi l’esperimento fallisce allora si impegna compatto a tornare dai cittadini.
Se invece dopo la eventuale crisi su basi strumentali e di sopravvivenza, magari con il contributo di Responsabili in servizio permanente effettivo, si formano esecutivi sui quali gli elettori non hanno potuto esprimersi, allora il sistema si avviterebbe ancor più su sé stesso precipitando in un buco nero di credibilità.