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La monarchia inglese, i repubblicani e Aristotele perplesso. Scrive D’Ambrosio

I simboli non sono la sostanza ma la devono esprimere. Se la sostanza traballa, il simbolismo sarà insignificante, oppure strumentale alla raccolta del consenso, come succede in molte campagne elettorali, oppure impiegato per coprire malaffari e corruzione. E i riti spesso diventano vuota coreografia, anche nelle religioni. La riflessione di Rocco D’Ambrosio

Non ci sono dubbi che ogni società si edifica, non solo con fatti, parole e strutture, ma anche con una miriade di simboli culturali, sociali, politici. Ogni persona umana, come ogni società, è alla continua ricerca di un fondamento nella sua vita: a volte lo coglie, altre volte lo smarrisce, comunque, in tutti i casi, esprime questo rapporto con il fondamento in maniera simbolica. Mary Douglas fa riferimento ai simboli (e alle analogie) come necessari per poter rispondere alla domanda “perché lo fate in questo modo?”.

Ogni gruppo sociale legittimato, quindi, per comprendere e spiegare, a sé e agli altri, il proprio operare ha bisogno di rifarsi a un qualcosa di “più alto”, a un qualcosa di costitutivo che può essere la posizione dei pianeti o il paragone con il corpo umano o di altro. E per raccontare questo processo si serve di simboli: bandiera, corona, stemma, inno o altro che sia. Senza questo utilizzo maturo di simboli tutto diventa una parata vuota, qui come altrove. Del resto anche le comunità di fede religiosa hanno problemi moto simili.

Anche una monarchia, quella inglese inclusa, necessita di questa forte tradizione simbolica: tra esequie di Elisabetta II e incoronazione di Carlo III, ne vedremo di simboli, interpretativi di una lunga storia e, in parte, del presente. Quanto ha scritto Michael Walzer per lo Stato, vale per ogni monarchia e, in fondo, per ogni gruppo istituzionale. Esso è “invisibile; deve essere personificato per poter acquistare visibilità, simbolizzato per essere amato, immaginato per poter essere concepito”. Sottolineiamo il “deve”: senza un processo di simbolizzazione la realtà istituzionale non può essere visibile, amata, concepita. La Regina Elisabetta ha svolto bene questo ruolo di simbolizzazione visibile e sentita.

Certo la domanda sulla opportunità del conservare forme di governo, per quanto rinnovate, comunque appartenenti al passato, si pone e ripone spesso. Essa ha tutta la legittimità per essere posta, almeno in sede teorica. Poi, ogni popolo, ha la libertà, nella sua autodeterminazione, di scegliere se e come rinnovare il proprio Paese democraticamente. Sono tra quelli che ringrazia il Cielo per il risultato della scelta italiana del 2 giugno 1946. Tuttavia non è solo la monarchia che ha bisogno di rimotivare il suo supporto simbolico, anche le democrazie necessitano dello stesso. E ciò per un semplice e fondamentale motivo.

Il simbolismo è un processo autointerpretativo di quello che un Paese è, della sua storia, della sua formazione e dei principi etici che lo ispirano. Secondo Aristotele l’intero edificio comunitario si fonda su tre elementi – come uno sgabello con tre piedi – sulla educazione (paideia per i greci), sulla legge costitutiva (quasi la politics degli anglosassoni) e sulla amministrazione pratica (policies). I simboli non sono la sostanza ma la devono esprimere. Se la sostanza traballa – cioè lo sgabello perde un piede o questo è debole – il simbolismo sarà insignificante, oppure strumentale alla raccolta del consenso, come succede in molte campagne elettorali, oppure impiegato per coprire malaffari e corruzione. E i riti spesso diventano vuota coreografia, anche nelle religioni.

Si comprende come i simboli prodotti non sono affatto marginali, ma espressioni fondamentali delle corrispondenti esperienze di vita delle istituzioni. E ogni simbolo usato diventa significativo delle dinamiche cognitive, emotive ed utilitaristiche che costituiscono il rapporto tra persona e istituzione. È in queste dinamiche che si ritrova l’autenticità di un Paese e la sua capacità di crescere al passo con i tempi, dove tradizione e innovazione si vivificano a vicenda.

Infatti la Douglas spiega che le strutture simboliche non sono altro che “una meditazione sui grandi misteri della religione e della filosofia, cioè ordine e disordine, essere e non essere, formale e informale, vita e morte”. Questa “meditazione” è indispensabile, necessaria, determinante.

Quindi la “lunga vita” del Re, ma anche della Repubblica, si potrà realizzare se i simboli sono solidi e il loro terreno culturale fertile. E, come dice Aristotele, solo il saggio (spoudàios) è l’autentico attore di questo processo perché desidera ciò che è davvero desiderabile e giudica ogni cosa nel modo giusto; sa cosa è la verità, perché ella ne è, per così dire, la misura (kanòn kài mètron) di tutto.


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