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L’Opec alza il prezzo del petrolio, mentre il gas schizza

La riduzione delle produzioni di petrolio (annunciata, pianificata o subito avviata) segna l’incontro Opec+. L’Arabia Saudita vuole tenere alto il greggio perché teme un eccessivo deprezzamento. Sullo sfondo lo scombussolamento del mercato energetico che colpisce anche il gas: tutto legato all’invasione russa dell’Ucraina

Mentre il gas ha aperto le contrattazioni di lunedì 5 settembre registrando un aumento del 31 per cento (frutto della crisi innescata dalla Russia, che ha bloccato i flussi dal Nord Stream, forse per reazione al sostegno europeo all’Ucraina, ufficialmente per un guasto tecnico), l’Opec+ si è riunita per evitare che il prezzo del petrolio scenda eccessivamente.

La decisione è di tagliare la produzione già a ottobre di 100.000 barili al giorno tornando dunque ai livelli di agosto. Secondo quanto indicato nel comunicato ufficiale, i paesi dell’Opec sottolineano come l’aumento deciso di 100.000 barili deciso a inizio agosto “era inteso solo per il mese di settembre”.

L’Arabia Saudita è entrata in riunione con l’intenzione di mantenere il valore del greggio attorno ai 100 dollari al barile (possibilmente di poco superiore, verosimilmente di poco inferiore), e per questo durante la riunione del cartello dei produttori potrebbe anche annunciare la necessità di una riduzione degli output.

Al sistema Opec+ partecipa anche la Russia, che è il secondo più grande produttore di petrolio al mondo e che sta beneficiando di una condizione di mercato particolarmente favorevole, avendo avviato una campagna di sconti appena dopo l’invasione ucraina – campagna pensata per proteggersi alle misure restrittive che Ue e Usa avrebbero innescato. Mosca è diventata la prima esportatrice di petrolio in Cina e ha guadagnato ampie fette di mercato in India.

Tuttavia la Russia era contraria al taglio delle produzioni spinto da Riad, perché temeva che potesse inviare il messaggio che a fronte del rallentamento dell’economia l’offerta è ora superiore alla domanda. Ossia teme che si inneschi un effetto negativo in sede di negoziazione dei prezzi. Riad ritiene invece che il taglio dell’offerta di petrolio serva per sostenere i prezzi di fronte all’impennata dell’inflazione che ha minacciato di far precipitare l’economia globale nella recessione.

La decisione arriva meno di due mesi dopo che il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha incontrato il principe ereditario Mohammed bin Salman a Gedda e ha detto di aspettarsi che il regno faccia “ulteriori passi” per aumentare la produzione di petrolio “nelle prossime settimane”. Se si esclude l’appartenenza contentino di settembre, la richiesta di Washington non è assorbita dai sauditi, che vogliono curare i propri interessi prima di tutto.

L’amministrazione statunitense è davanti a un periodo difficile. I prezzi alla pompa restano alti, guidano l’inflazione (che ha toccato record decennali) e portano al rialzo dei tassi di interesse. I Democratici vorrebbero contenere la situazione anche attraverso il calo del greggio, e dunque delle spese dirette dei contribuenti, perché credono che questo potrebbe essere un elemento determinante nella già complessa partita in questi ultimi due mesi prima delle elezioni di metà mandato – dove Biden rischia di perdere entrambe le camere.

Il calo dell’11% dei prezzi del petrolio della scorsa settimana è stato accolto con favore dalla Casa Bianca (che ha anche provato a intestarsi parte dei meriti), ma allo stesso tempo è stato questo che ha spinto alcuni membri dell’Opec+ a chiedere un’inversione di rotta dopo mesi di aumenti dell’offerta.

Il ministro dell’energia saudita, Abdulaziz bin Salman, è stato messo sotto pressione da parte del principe ereditario. Il fratellastro, che è stato il protagonista del recente incontro con Biden (in cui i due hanno apparentemente normalizzato le relazioni), intende mantenere il valore vicino ai 100 dollari al barile.

La volatilità dei prezzi, una narrativa di mercato ribassista, e le notizie di ulteriori possibili lockdown in Cina legati al Covid sono motivo di preoccupazione a Riad come ad Abu Dhabi. L’Opec preferisce solitamente mantenere una linea costante, senza eccessive variazioni di indirizzo, tuttavia le circostanze hanno portato l’organizzazione a cambiare rotta (il primo taglio dopo oltre un anno).

Al di là delle perplessità sugli umori del mercato, la Russia sa che se il taglio riuscirà a mantenere il prezzo alto ha maggiore possibilità di sconti e guadagni, garantendosi capacità di margine. Per esempio, uscendo dal petrolio: secondo la società di consulenza Capital Economics, se i prezzi del gas rimarranno ai livelli la Russia potrebbe mantenere le esportazioni verso l’Europa al 20% dei livelli normali per i prossimi due o tre anni e potrebbe interrompere completamente le forniture per un anno senza effetti negativi sull’economia russa.

Il recente sell-off del petrolio ha lasciato i prezzi più bassi rispetto a prima dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, che aveva inizialmente innescato un rally che ha portato i prezzi di marzo vicino al massimo storico. Davanti a questo, gli Stati Uniti e altri Paesi hanno risposto liberando petrolio dalle scorte di emergenza e invitando l’Arabia Saudita ad aumentare la produzione.

Venerdì gli Stati Uniti hanno ottenuto l’appoggio di altri Paesi del G7 per un piano che prevede l’imposizione di un tetto al valore del greggio russo, una mossa volta a prevenire un’impennata dei prezzi del petrolio nel corso dell’anno, quando le sanzioni europee contro la Russia si inaspriranno.

L’Opec+ stava esaminando tre opzioni: mantenere le quote di produzione esistenti, annunciare l'”intenzione di tagliare” la produzione a partire dal mese prossimo in attesa di nuovi dati sulla domanda e sull’offerta, oppure concordare immediatamente un taglio per ottobre. Ha scelto la terza via, la più netta.

I tagli consentono al gruppo di conservare una “potenza di fuoco” sotto forma di capacità supplementare nel caso di un calo significativo della produzione russa nel corso dell’anno o nel caso in cui i disordini in Iraq interrompano la produzione locale, ha suggerito Malek.

I timori sauditi (e non solo) ruotano attorno al rischio recessione, a cui si aggiunge però la possibilità della ricomposizione del Jcpoa (l’accordo sul congelamento del programma nucleare iraniano) che eliminerebbe le sanzioni americane e consentirebbe a Teheran di tornare sul mercato col proprio petrolio. Un aumento di offerta che deprezzerebbe il bene; e che per Riad significa anche una serie di timori sul piano geopolitico.

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