Il day after dei leader politici nostrani è il modo migliore per testare la qualità dei personaggi, la loro tempra e il loro spessore sia umano che politico. E soprattutto serve per capire cosa attende l’Italia in una fase, di nuovo, dove moltissimo è cambiato ma alcuni vizi di fondo del carattere nazionale rimangono. Il mosaico di Fusi
You cant always get what you want, assicuravano i mitici Rolling Stones già all’inizio degli anni ‘70 del secolo scorso, quando tutto era diverso ma uguali le passioni, le sconfitte, le aspirazioni. Più prosaicamente, “Bisogna saper perdere” tagliavano corto qui da noi i Rokes, gruppo inglese di nascita ma italiano di successi. Ma non meno difficile saper vincere, potremmo aggiungere guardando ai risultati elettorali di domenica. In particolare se capisci che stravincere non conviene.
Il day after dei leader politici nostrani è il modo migliore per testare la qualità dei personaggi, la loro tempra e il loro spessore sia umano che politico. E soprattutto serve per capire cosa attende l’Italia in una fase, di nuovo, dove moltissimo è cambiato ma alcuni vizi di fondo del carattere nazionale – dall’effetto bandwagon al trasformismo perenne – rimangono.
E poi le parole sono pietre, in politica più che mai. Andiamo ad analizzarle. E, con un pizzico di ironia, a stilare delle pagelle.
Il giorno dopo il trionfo, Giorgia Meloni ha deluso chi immaginava toni enfatici e pose da prima donna (che poi in effetti è l’abito giusto per lei: prima donna a vincere una tornata politica; prima donna a rivendicare e presumibilmente ottenere la nomination per Palazzo Chigi). Al contrario, la presidente del Consiglio in pectore non solo ha vietato festeggiamenti e tripudianti fuochi d’artificio, ma ha centrato il suo intervento ad urne ancora calde, diciamo così, su due concetti: unità e responsabilità. Unità non solo della coalizione (e saranno problemi) ma innanzi tutto nel Paese. Meloni guida una forza politica a torto o a ragione considerata estrema e in queste condizioni i pericoli per la coesione sociale non sono trascurabili. Una radicalizzazione non solo di toni ma di atteggiamenti e di provvedimenti spaccherebbe ancor più una comunità che dai tempi degli Orazi e Curiazi passando per i Guelfi e Ghibellini fa della divisione una patologica voluttà. E poi responsabilità, perché la sfida di governo che attende il destra-centro e chi lo dovrà guidare è tremenda, da impedire di dormire come peraltro Giorgia ha confessato nei giorni prima del voto. Stare all’opposizione è relativamente facile, passare al governo rende tutto più complicato.
Voto: 8 e mezzo
In contrapposizione alla Meloni, c’è il primo grande sconfitto (l’altro è Matteo Salvini: ci arriviamo) delle elezioni, il segretario Pd Enrico Letta. Da persona onesta intellettualmente quale è, Letta non si è nascosto dietro al dito delle convenienze. Ha riconosciuto la sconfitta telefonando alla Meloni, gesto non usuale da queste parti e perciò ancor più apprezzabile. Al popolo di sinistra sbandato e sbigottito, ha detto che lascerà l’incarico spiegando che il congresso dei primi mesi del 2023 non dovrà essere, stucchevolmente, di “rifondazione” ma di vera e propria revisione delle radici identitarie del Pd e di riscrittura del suo percorso. Ha attaccato Conte dicendo che se Meloni ha preso il posto di Draghi la colpa è tutta sua. Aggiungendo tuttavia che per il futuro qualche tipo di intesa con i Cinque Stelle andrà trovata. Come pure non sono mancate le bordate contro il fuoco amico del Terzo polo. È vero che non può essere il leader sconfitto che lascia a dettare la linea. Ma è altrettanto vero che nelle parole di Letta è mancata un’analisi approfondita per il peggior tonfo elettorale mai subito dai Democrat e della condizione di sostanziale isolamento in cui si ritrova ora il partito. Al dunque: umanamente encomiabile, politicamente confuso.
Voto: 7
Di tutt’altra pasta l’atteggiamento dell’altro perdente per nulla di successo: Salvini. L’ex Capitano, capitombolato dalle altezze siderali del 34 per cento delle Europee del 2019 al baratro dell’8 per cento e spiccioli di domenica, di fronte ai numeri impietosi ha fatto spallucce come se nulla fosse. Anche in questo caso senza alcuna riflessione sulle ragioni del tonfo. Che ha assunto dimensioni catastrofiche nelle ex roccaforti del Carroccio, tipo il Veneto dove FdI l’ha doppiato. “Non vedo l’ora di mettermi al lavoro con Giorgia”, ha spiegato a muso duro ai contestatori interni ed esterni. Dovrà farlo da gregario e comprimario, e non più da comandante. Usando i borbottii al posto dei pugni sbattuti sul tavolo. In queste condizioni un leader consapevole rimette il suo ruolo nelle mani del partito chiedendo una riconferma che può esserci o no. Salvini non ha avuto questo coraggio.
Voto: 5
Alla fine Giuseppe Conte non si è limitato a un sospiro di sollievo per la mancata pseudo estinzione cui sondaggi e analisti l’avevano destinato, salvo poi registrare un deciso recupero nelle ultime settimane al Sud grazie alla parola d’ordine del Reddito di cittadinanza. Ha invece sfoderato il più largo dei sorrisi usando l’acido per mascariare l’immagine di Enrico Letta a cui ha rubato voti e palcoscenico. Ma anche qui senza precisare di che tipo e qualità vorrà essere la sua opposizione. “Guai a chi tocca il reddito”, ha ruggito. Ma non è più presidente del Consiglio e la premiership è solo un miraggio. L’obiettivo vero è sbriciolare il Nazareno, dopo aver usato il napalm con gli oppositori interni. Grande enfasi, ma poco costrutto.
Voto: 6 meno meno
Deluso Calenda è deluso. “L’obiettivo di frenare l’avanzata della destra non è riuscito”, ha pigolato nel dopo voto. Il numero uno di Azione puntava a svuotare Forza Italia e invece si è ritrovato un Cavaliere capace di totalizzare un impensato 8 per cento: più di quanto ha preso lui assieme a Renzi. L’ex premier è invece molto più contento: ha evitato l’estinzione e ovviamente senza dirlo rimane convinto di poter erodere consensi e immagine al suo fratello-coltello.
Voto Calenda: 5 – Voto Renzi: 6+
Infine, Berlusconi, l’immortale. Ha spaziato su TikToK, ha annichilito i gufi. Da trent’anni è sempre lì sul palcoscenico, e non c’è verso di farlo scendere. Sembrava un patetico ex leader destinato al tramonto: è stato capace di un’unghiata che fa male.
Voto: 7 e mezzo.
E adesso tutti la lavoro: c’è da salvare l’Italia.