Intervista all’ex ministro del Lavoro e già presidente dell’omonima commissione parlamentare. Con un costo della vita oltre l’8% la rivalutazione degli assegni può costare fino a dieci miliardi, una spesa dalla quale è impensabile sottrarsi. La legge Fornero è viva e vegeta, ma ora salvare Ape social e Opzione donna per permettere di andare in pensione in anticipo
La mina è pronta a esplodere, sempre che non si intervenga prima. L’inflazione non fa prigionieri ed è pronta ad azzannare le pensioni italiane, soprattutto gli assegni più leggeri. D’altronde, con un costo della vita costantemente sopra l’8% a fronte di pensioni non aggiornate all’impennata dei prezzi è facile intuire come si possa rischiare un vero e proprio default di certe fasce, quelle più deboli e con assegni esigui. Un po’ di numeri. Secondo le stime della Ragioneria Generale dello Stato, serviranno 25 miliardi di euro per sostenere una rivalutazione delle pensioni collegata ad un’inflazione stabilmente sopra l’8%.
Questo implicherebbe ipotecare almeno 8-10 miliardi nella Legge di bilancio 2023, che verrà varata a breve, in aggiunta ai maggiori oneri già previsti dal Def approvato lo scorso aprile. Ma non è escluso che la situazione sia anche più tesa e che il governo, nella Nota di aggiornamento al Def, sia costretto a ritoccare al rialzo la previsione di crescita della spesa pensionistica per l’anno venturo, che la Ragioneria generale già indicava al 16,2% dal 15,7% precedente. Di questo Formiche.net ha parlato con Cesare Damiano, ex ministro del Lavoro con Prodi e già presidente dell’omonima commissione alla Camera.
“Il problema delle pensioni è duplice, perché una parte significativa degli assegni è molto bassa e arriva fino al tetto dei mille euro mensili. Dall’altra parte ci sono le forme di indicizzazione che non tengono il passo con l’attuale livello di indicizzazione; dunque, c’è un effetto combinato”, premette Damiano. “Pur essendo insufficiente l’attuale indicizzazione, l’alto numero di pensioni coinvolte comporta un costo stimato in circa 10 miliardi di euro per agganciare gli assegni all’inflazione. Siamo insomma in una tenaglia: il caro vita è aumentato a dismisura e l’INPS deve far fronte a un esborso importante, come ho già detto di non meno di 10 miliardi di euro”.
L’ex ministro tiene a precisare un punto. “Non è una spesa rimandabile, deve essere una priorità, non ci si può sottrarre. Il problema è che le risorse scarseggiano, perché oltre ai soldi per la rivalutazione, c’è anche la questione dell’estensione e della rivalutazione della quattordicesima, che io avevo istituito al tempo del governo Prodi II. Ritengo che se vogliamo coinvolgere le pensioni medio-basse dobbiamo alzare la soglia alle pensioni fino ai 1.500 lordi mensili, che al netto sarebbero sui 1.200 euro”.
Altra questione, non certo meno urgente, la fine naturale delle principali opzioni per lasciare il lavoro anticipatamente, con una piccola decurtazione dell’assegno. Dal 1 gennaio 2023 lasciare il lavoro prima dei 67 diventerà molto complicato, visto che si tornerà alle vecchie regole della legge Fornero. A meno che, e qui sta la scommessa, non entri in gioco la Quota 41, misura regina del programma elettorale della Lega. Ma in assenza di una riforma dell’ultimo momento che introduca novità, le opzioni per lasciare il lavoro qualche anno prima si restringono vertiginosamente. Quota 102 scade il 31 dicembre di quest’anno. In altre parole, le alternative resteranno le regole ordinarie per tutti, ovvero la pensione di vecchiaia a 67 anni di età con almeno 20 di contributi o quella anticipata con 41-42 anni e 10 mesi di contributi a prescindere dall’età anagrafica.
“L’uscita anticipata può riguardare sicuramente i lavori gravosi, con l’Ape sociale che dovrebbe diventare strutturale e non rinnovata di anno in anno. Poi c’è Opzione donna, ovvero l’addio anticipato al lavoro con un taglio fino al 30% dell’assegno e che anch’essa andrebbe resa strutturale”, spiega Damiano.
“Onestamente mi sembra più problematica la questione relativa a Quota 102, che termina alla fine dell’anno. Ma nessuno ha chiesto di prolungarla, anche perché si tratta di una misura che interessa soltanto quella parte di forza lavoro che ha la possibilità di avere 38 anni di contributi e 64 anni di età. Non certo una quota maggioritaria. Insomma, lavori usuranti, Opzione donna e Ape sociale non possono sparire: chi svolge lavori usuranti o gravosi non può non anticipare la pensione. Ricordiamoci sempre che tali misure non superano la legge Fornero, che è viva e vegeta. Per cancellarla servirebbe una grande riforma, per anticipare l’uscita dal lavoro a partire dai 63 anni rendendola flessibile, con una leggera penalizzazione per coloro che non svolgono lavori gravosi. Io ci stavo lavorando, con il ministro Andrea Orlando“.