Il presidenzialismo è un grande tema politico-istituzionale che da sempre ha attraversato le diverse famiglie politiche in Italia. E non va considerato come una sorta di contropotere, ma come un elemento di equilibrio e di riconoscibilità del processo di formazione della decisione che è uno dei fattori necessari alla modernizzazione del Paese. L’analisi di Gennaro Malgieri
Il “cuore” dell’azione politica del governo di Giorgia Meloni e della maggioranza che lo sosterrà sarà un vasto lavorìo riformista improntato alla riscrittura della seconda parte della Costituzione in senso presidenzialista. Su questo piano, al quale non è escluso che altre forze politiche prestino il loro consenso, lasciando la sinistra ed il Pd fuori dalla disputa per trascinarsi in una lunga e solitaria opposizione alla ricerca dell’identità perduta, il centrodestra giocherà la sua grande partita fornendo, finalmente, attraverso una Bicamerale o, preferibilmente, un’Assemblea costituente (più adatta allo scopo) la Grande Riforma che rivitalizzi la democrazia repubblicana azzerando il distacco crescente tra istituzioni e popolo. Una scelta che implica decisionismo e partecipazione innovando una prassi politica diventata stantia che non garantisce stabilità, né efficienza.
A chi avesse, nel campo avverso al centrodestra, perplessità sul progetto che la compagine guidata dalla Meloni sta già portando avanti, dando seguito a quanto annunciato in campagna elettorale, questa mattina Sabino Cassese, giurista di altissimo valore e privo di preconcetti, in una intervista al Corriere della sera, ha detto, sgombrando la discussione dalle “demonizzazioni” ideologiche, che “esistono più di una decina di tipi di presidenzialismo”, e che una delle sue forme “può soddisfare un’esigenza fondamentale: quella di consolidare l’esecutivo. La Costituzione stabilisce quanto tempo durano in cariche i membri del Parlamento, quanto il Presidente della Repubblica, quanto tempo i giudici della Corte costituzionale, ma non stabilisce quanto tempo durano i governi. Con la conseguenza di avere avuto 67 governi in 75 anni, mentre la Germania ne ha avuti due terzi di meno e un numero ancora inferiore di cancellieri. Quando, nell’ultimo decennio del secolo scorso, si introdusse la riforma presidenziale per comuni e regioni, si disse che si voleva sperimentare il presidenzialismo per poi trasferirlo anche a livello nazionale. La sperimentazione ha dato risultati complessivamente positivi; perché non tenerne conto?”.
Già, perché non tenerne conto? Le idiosincrasie di certa sinistra hanno a lungo bloccato il processo riformista con conseguenze disastrose sotto il profilo della governabilità. E ancora oggi, con l’arroganza che la sconfitta non ha mitigato, continua a sostenere che neppure un confronto sul tema è disposta ad accettare, mentre rappresentanti del cosiddetto “Terzo Polo”, più aperti alle innovazioni, hanno dato la loro disponibilità a partecipare ad una discussione sull’opzione presidenzialista aprendo all’invito della Meloni. L’alibi sostenuto da alcuni circa i rischi “autoritari” che l’elezione diretta del Capo dello Stato comporterebbe, fu smontato da Piero Calamandrei (non un impresentabile rottame del vecchio regime fascista) in un articolo pubblicato su L’Italia libera il 19 dicembre 1946. In esso lo studioso e costituente scriveva: “Ciò che spaventa gli avversari della repubblica presidenziale è soprattutto il pericolo della concentrazione nella sola persona del Presidente delle due cariche di capo dello Stato e di capo del governo, che si teme possa invogliare alla dittatura. Non credo che questi timori siano fondati, perché le dittature escono da un esecutivo politicamente debole, più spesso che da uno giuridicamente forte; ma, in ogni modo, si può anche ammettere che nell’attuale situazione politica italiana possa essere più conveniente mantenere la distinzione tra capo dello Stato e capo del governo, lasciando al primo il carattere di un organo di equilibrio costituzionale posto al di sopra dei partiti, e cercando di dare al capo del governo un’autorità che, facendo di lui il capo riconosciuto di una stabile coalizione di partiti, lo avvicini a quel prestigio che negli Stati Uniti d’America o in Inghilterra deriva al presidente o al primo ministro dall’essere il capo del partito di maggioranza”.
Sgombrato il campo da queste imposture, la strada delle riforme resta l’unica opzione possibile per rimettere in piedi il Paese. Riforme che non possono prescindere dal sottrarre ai partiti tutto il potere indebitamente accumulato (riconoscimento giuridico degli stessi, dunque, e delimitazione del loro ruolo). Rimedio questo, come osservava il giurista inglese John Bryce, che potrà sembrare possibile “solo in una società dove i cittadini si conoscano l’un l’altro così bene da scegliere i membri del potere legislativo e d esecutivo con riguardo al loro merito personale, e dove i legislatori siano di una virtù così pura da discutere di ogni questione alla stregua soltanto della verità, a vantaggio dello Stato”.
Ricomporre il quadro del rapporto tra popolo e istituzioni significa tornare a proporre la più lineare, efficace e compiuta rappresentazione del potere che trae dal basso la sua legittimazione, dunque la più alta espressione della democrazia diretta, vale a dire l’elezione popolare del capo dell’esecutivo: un grande tema non di oggi che ha intrigato invece trasversalmente innumerevoli politici ed intellettuali dall’immediato dopoguerra ad oggi. Scriveva, solo per citarne uno, Gianfranco Miglio: “Se, in un regime elettivo-rappresentativo, si vuole (e non si può non volerlo) un supremo potere decisionale (cioè un governo) sottratto alle pressioni ed ai ricatti degli interessi frazionali organizzati, la via obbligata è costituita dall’elezione diretta del suo titolare da parte del popolo. Da un vero ‘leader’ nazionale, designato da milioni di elettori, nessuno si sogna di pretendere poi, in cambio del voto, favori personali o di categoria; né il candidato ad un a competizione di tale dimensione è costretto a presentare ‘piattaforme’ elettorali molto particolareggiate: il rapporto di ‘rappresentanza’ è tanto più fiduciario quanto maggiore è il numero degli elettori, e più ampio, dunque, il collegio elettorale”.
Dunque, “i governi più forti sono indubbiamente quelli dei regimi ‘presidenziali’, ove le funzioni di capo dello Stato e di responsabile dell’Esecutivo coincidono. Esempi massimi del genere sono offerti dalla Costituzione statunitense e (in parte) da quella francese della Quinta Repubblica”, nelle quali il Parlamento ha il compito di occuparsi della grande legislazione, ma non ha l’esclusiva della funzione normativa, una parte della quale spetta al governo. In Italia, dove vige un parlamentarismo assoluto, e dunque un assoluto dominio dei partiti, l’obiettivo del legislatore non è garantire la funzione normativa, ma il diritto di ogni parlamentare di far valere contro le iniziative del governo, di qualsiasi segno sia, gli interessi, più presunti che reali, dei suoi elettori o delle lobby che rappresenta e lo sostengono in campagna elettorale.
La questione s’inscrive nella grande disputa sulla sovranità e, dunque, sui limiti dei poteri costituzionali. Se si proiettano le deficienze rilevate nel contesto policentrico che caratterizza l’assetto istituzionale del nostro Paese, si ha un quadro esatto della paralisi politica cui si deve il disagio crescente nella popolazione. Ed allora sarà bene, nell’affrontare la tematica presidenzialista, spendere qualche parola al riguardo.
La sovranità politica attuale non è più quella che era fino a qualche tempo fa. Essa è divisa fra enti sovranazionali, enti territoriali, autorità indipendenti: tutti elementi che non potevano essere contemplati nella Carta costituzionale la quale si fonda, invece, sulla sovranità concepita sul modello dello Stato-nazione il quale, com’è noto, discende da un’antica concezione dello Stato che ha avuto in Jean Bodin il più grande teorico e che fu codificata in Europa con la pace di Westfalia nel 1648. Oggi si può dire, proprio perché sono radicalmente mutate le forme della sovranità, che assistiamo all’emergere di una sovranità che trae legittimità dal basso, dai cittadini, dai movimenti, dagli enti territoriali e sopranazionali, a cui vengono delegati o devoluti buona parte di molti poteri che in precedenza appartenevano in esclusiva allo Stato nazionale.
Questi diversi livelli di sovranità vanno ricondotti ad unità se si vuole evitare il pericolo di una disgregazione possibile del tessuto nazionale. La sola possibile unità è una istituzione che tragga la propria legittimità dai cittadini: l’elezione diretta del presidente della Repubblica o del capo dell’esecutivo, come istanza di coesione della molteplicità delle componenti della società civile. Diversamente, continueremo ad assistere al diffondersi del policentrismo fino ai limiti estremi dell’incontrollabilità e, dunque, alla disgregazione dell’unità statale priva di rappresentanza unitaria.
Il presidenzialismo è un grande tema politico-istituzionale che da sempre ha attraversato le diverse famiglie politiche in Italia. E non va considerato come una sorta di contropotere, ma come un elemento di equilibrio e di riconoscibilità del processo di formazione della decisione che è uno dei fattori necessari alla modernizzazione del Paese. Da essa, dal momento decisionale “forte”, non si può prescindere se si intende procedere alla modernizzazione sociale e delle strutture civili del Paese, se non si dotano , cioè, i centri decisionali di poteri efficaci che, al momento, non dimentichiamo che vengono esercitati da soggetti diversa dalla classe politica, e dunque privi di legittimazione democratica, come supplenti insomma, che agiscono sulla spinta di interessi personali o di gruppo.
Il presidenzialismo è, inoltre, un elemento di partecipazione, ma è anche di chiarificazione all’interno dei rapporti tra i poteri dello Stato. Con la sua adozione si stabilisce una netta linea di demarcazione tra i controllori ed i controllati, tra potere legislativo e potere esecutivo. Il Parlamento può effettivamente esercitare un controllo sul governo avendo questi la sua fonte di legittimazione fuori dalle aule parlamentari. La formula della Repubblica presidenziale ha pure, oltretutto, una sua carica di suggestione quasi mitica perché avvicinando direttamente i cittadini al potere è il prodotto di un meccanismo di immediata comprensione proponendosi come rottura rispetto ad un sistema come l’attuale nel quale le degenerazioni partitocratiche sconfinano nel trasformismo e nella rottura del patto fiduciario con gli elettori.
Il presidenzialismo non è una sfida, ma una proposta per immaginare una Repubblica nuova, dei cittadini e non dei partiti. Jean Jaurés, socialista e democratico, sosteneva che la Repubblica non va soltanto difesa: va organizzata. Sono convinto che la migliore difesa della Repubblica e dei valori repubblicani stia nell’organizzazione delle sue strutture politico-istituzionali. Se la scelta presidenzialista resta sullo sfondo delle possibilità, declinata nel modo che si reputa più opportuno, credo sia una possibilità che non dovremmo lasciarci sfuggire. Sia pur tenendo presente che il contesto non è favorevole all’apertura di una stagione di riforme, ma che soltanto da un’Assemblea costituente, sottratta alla dialettica parlamentare ed allo scontro tra i poteri dello Stato, potrà nascere una Nuova Repubblica. La Repubblica degli italiani.