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Come rispondere alla minaccia nucleare di Putin. Scrive Bozzo

Dopo aver subito rovesci militari, severe perdite di uomini e mezzi e umiliazioni il leader il Cremlino ha dato il via e non da ieri all’escalation. Per farvi fronte occorreranno estrema prudenza e sangue freddo. Occorrerebbero grandi leader, come durante la crisi dei missili a Cuba. Il commento di Luciano Bozzo, professore di Relazioni internazionali e studi strategici dell’Università di Firenze

Le ultime minacce all’Occidente di Putin e Medvedev hanno riacceso un dibattito iniziato mesi fa: bluffano o fanno sul serio? Putin ha esplicitamente e non casualmente affermato che non bluffa. Ciò nonostante, poiché la sua è una minaccia nucleare, molti analisti e commentatori s’interrogano sull’effettiva credibilità della medesima. Se fosse messa in pratica essa aprirebbe infatti scenari inediti e le conseguenze potrebbero essere devastanti per la stessa Federazione Russa. Perché e con quale credibilità, allora, Putin dovrebbe minacciare di fare qualcosa che nella peggiore delle ipotesi metterebbe in discussione la sopravvivenza sua e della Russia?

La questione, così posta, è però posta male. Sin dal giorno successivo all’inizio della guerra in Ucraina l’allerta data dal Cremlino alle forze di deterrenza riportò all’attenzione di esperti e vasto pubblico la questione dell’impiego sul campo di battaglia di armi nucleari, le cosiddette armi nucleari tattiche o non-strategiche. Dopo la fine della guerra fredda il problema dell’uso delle armi nucleari di fatto è stato colpevolmente trascurato per decenni. Le ragioni sono diverse: il collasso dei regimi comunisti nell’Europa centrale ed orientale, il dissolvimento del Patto di Varsavia, la disgregazione territoriale e la fine dell’Unione Sovietica, unite all’allora scarsa rilevanza dell’arsenale strategico cinese e a maggior ragione delle altre potenze nucleari.

Tutto ciò nel corso degli anni ha indotto tanti a credere o sperare che lo spettro della guerra nucleare stesse allontanandosi. La minaccia del terrorismo jihadista, l’avvento presunto dell’era delle guerre asimmetriche e cibernetiche fecero il resto. Il genio nucleare parve davvero essere stato rinchiuso nella lampada. L’unica questione degna di attenzione parve semmai essere quella di come riformulare la teoria della deterrenza e quali mezzi adottare per far sì che la minaccia nucleare potesse produrre effetti dissuasivi anche nei confronti della sfida terroristica o persino cibernetica. Nel frattempo, il progresso tecnologico non si era fermato. Negli arsenali continuavano ad entrare nuove armi nucleari miniaturizzate, di potenza spesso corrispondente solo a una frazione, pochi decimi di kiloton, rispetto a quella della bomba sganciata su Hiroshima, pari i circa 20 kiloton, ovvero 20.000 tonnellate di tritolo equivalenti. Armi come queste, se usate, produrrebbero effetti, perlomeno quelli immediatamente visibili, non diversi dagli effetti prodotti dalle più potenti armi convenzionali.

In termini di capacità distruttiva il confine tra armamenti convenzionali e nucleari è così venuto progressivamente a sfumarsi. Resta tuttavia un confine di natura psicologica, certamente più importante. Una volta che fosse superata la “soglia nucleare” entreremmo in una realtà sconosciuta e la naturale tendenza di ogni guerra a scalare verso il massimo estremo della violenza potrebbe condurre allo scenario impensabile di una guerra nucleare su vasta scala. Stando così le cose la minaccia d’uso di armi nucleari, sebbene di potenza ridotta, da parte di un leader conscio del fatto che il suo avversario dispone di armi simili o è sostenuto da altra o altre potenze nucleari appare irrazionale. Probabilmente una mossa del genere provocherebbe infatti una risposta analoga e questo darebbe il via ad un’escalation forse incontrollabile, che a sua volta potrebbe condurre alla devastazione se non alla distruzione del Paese che per primo ha impiegato l’ordigno nucleare.

In questa prospettiva, dunque, le più o meno esplicite minacce di ricorso al nucleare da parte di Putin non sarebbero altro che un bluff, a meno che non si pensi che siano invece prova di un comportamento irrazionale, ipotesi che nel caso di specie è da escludere. Il problema della credibilità, perciò dell’efficacia, di una minaccia nucleare a fine deterrente, rivolta a un avversario che sia anch’esso potenza nucleare si pose per la prima volta molto tempo fa. Nella seconda metà degli anni Cinquanta del secolo scorso l’Unione Sovietica iniziò a disporre di vettori, sia bombardieri a lungo raggio che missili balistici intercontinentali, in grado di portare bombe o testate nucleari sul territorio degli Stati Uniti. Sebbene l’Unione Sovietica avesse testato la sua prima atomica nel 1949 fu solo in quel momento che venne meno il monopolio di cui, de facto, gli Americani avevano goduto sino ad allora. Non disponendo l’Unione Sovietica, al contrario degli Stati Uniti, di mezzi in grado di raggiungere l’avversario o di basi prossime al suo territorio la relazione nucleare era rimasta per un decennio e passa del tutto squilibrata a favore di quest’ultimo.

Nel momento in cui l’invulnerabilità americana venne meno emerse il problema. Come avrebbe potuto un qualsiasi presidente degli Stati Uniti minacciare l’impiego di armi nucleari, nel caso l’avversario avesse adottato un’azione ritenuta intollerabile, sapendo che la controparte avrebbe replicato nello stesso modo contro il proprio territorio, le proprie città? La necessità di rispondere a questo dilemma produsse decine di migliaia di pagine di monografie, articoli, paper: la teoria della deterrenza nucleare. Una delle risposte intellettualmente più stimolanti al problema fu che, ovviamente, un leader non potrà mai minacciare su base razionale di adottare un comportamento che egli sa produrrebbe, qualora tradotto in pratica, un esito inaccettabile, dunque irrazionale.

Il leader può invece e razionalmente minacciare di innescare un processo che, una volta superato un certo limite, produrrà inevitabilmente quell’effetto, a prescindere dal fatto che egli lo voglia o meno. È questa la strategia di voluta manipolazione del rischio estremo, volta a dare credibilità a ciò che altrimenti non sarebbe credibile ed è in questi termini che deve essere interpretato il comportamento di Putin.

Dopo aver subito rovesci militari, severe perdite di uomini e mezzi e umiliazioni il leader il Cremlino ha dato il via e non da ieri all’escalation. Per farvi fronte occorreranno estrema prudenza e sangue freddo. Occorrerebbero grandi leader, come durante la crisi dei missili a Cuba.



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