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Il puzzle energetico italiano spiegato da Polillo

Gas

La dipendenza dell’Italia dalle fonti energetiche è cosa nota. Meno conosciuto, invece, il rapporto che intercorre tra la dinamica delle importazioni delle commodities energetiche e il restante quadro macroeconomico. Per questo occorre intervenire. L’analisi di Gianfranco Polillo

Secondo gli ultimi dati, forniti dal Mise (ministero dello Sviluppo economico), i consumi interni lordi di gas, nei primi sette mesi dell’anno, sono diminuiti dell’1,7 per cento, rispetto al corrispondente periodo dell’anno precedente. Segno evidente degli effetti negativi dovuti al forte ricarico delle bollette. Gli italiani, in altre parole, non hanno dovuto aspettare le direttive della Commissione europea sul come risparmiare energia. Vi hanno provveduto spontaneamente, nonostante il grande caldo dell’estate appena trascorsa. Risparmi che sono decisamente aumentati subito dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Quando sono iniziati i balletti intorno al prezzo del gas orchestrati da Gazprom su ordine del Cremlino.

Nonostante il minor consumo, le importazioni sono, tuttavia, aumentate del 4,1 per cento. Le grandi imprese, che controllano la logistica del gas, hanno esportato una parte non piccola (rispetto agli anni precedenti) della materia importata, in precedenza. Poco più di 2 miliardi di standard metri cubi a 38,1 MJ (forza riscaldante definita), contro una media dei 18 anni precedenti (2003/2020) di appena 200 milioni. Nel 2021, invece, le esportazioni di gas erano state pari ad oltre 1,5 miliardi. Livello che è stato abbondantemente superato nei primi 7 mesi dell’anno. Insomma: il gas è un grande business e le aziende fanno di tutto per aumentare i propri profitti. Come del resto si è visto nello scarso entusiasmo profuso nel pagamento delle maggiori imposte previste dal Governo: 1 miliardo di effettiva riscossione sui 10 originariamente previsti.

Rispetto ai sette mesi dell’anno precedente, la produzione nazionale è ulteriormente scesa. Con un calo dello 0,7 per cento. Ed una deriva che, nel susseguirsi degli anni, ha assunto la veste di un vero e proprio tracollo. Salvatore Carollo, ex dirigente Eni, solo qualche mese fa, dalle colonne della rivista “Energia” ci ricordava che “non possiamo e non dobbiamo dimenticare che agli inizi degli anni 2000 la produzione nazionale di gas era di oltre 21 miliardi di metri cubi all’anno”. E che da allora questa risorsa è stata completamente trascurata, consentendo ai Paesi vicini di sfruttare i relativi giacimenti, come nel caso della Croazia sul Mar Adriatico. Per avere un’idea di quanto possa essere grande questo spreco, basti considerare che quella produzione equivale ad oltre il 29 per cento delle importazioni di gas del 2021.

Trattandosi di importi così rilevanti era doveroso trovare le necessarie conferme. Purtroppo i dati del Mise partono dal 2003.  Allora, comunque, la produzione nazionale era stata pari a quasi 14 miliardi di metri cubi. Per poi subire negli anni successivi un progressivo décalage, al ritmo del 7 per cento l’anno. Arrivando, così, a poco più di 3 miliardi nel 2021. E scendere ancora nei primi 7 mesi dell’anno. In questo lungo periodo, le risorse abbandonate a sé stesse o, peggio, al libero sfruttamento degli altri Paesi, sono stati pari al 75 per cento dello sforzo compiuto nel 2003. Un piccolo capolavoro degli “apocalittici” (copyright di Umberto Eco) dell’ambientalismo. Che avevano raggiunto il massimo dei risultati nel febbraio 2019 (uno dei tanti regali del Governo Conte I), approvando la legge n. 12, che convertiva il decreto legge 14 dicembre 2018, n. 135, recante disposizioni urgenti “in materia di sostegno e semplificazione per le imprese e per la pubblica amministrazione.”

Oltre il danno la beffa: considerato che l’articolo 11 ter della legge di conversione prevedeva un nuovo strumento di controllo costituito dal “Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee” (PiTESAI), che sospendeva ogni attività di ricerca e di sfruttamento, in attesa di giungere a quella pianificazione integrale, che doveva rispettare “le caratteristiche del territorio, sociali, industriali, urbanistiche e morfologiche, con particolare riferimento all’assetto idrogeologico ed alle vigenti pianificazioni”. Per quanto riguardava le aree marine, doveva “principalmente considerare i possibili effetti sull’ecosistema, nonché tenere conto dell’analisi delle rotte marittime, della pescosità delle aree e della possibile interferenza sulle coste.” Come si può vedere: una vera e propria foresta di divieti e vincoli, destinata inevitabilmente ad estendersi, essendo previsto anche l’intervento delle Regioni.

Tempo previsto originariamente per la realizzazione del piano: 18 mesi dalla data di approvazione della legge. In teoria l’11/8/2018. Taglio del traguardo effettivo: dicembre 2021, con un ritardo di oltre tre anni. Nel frattempo il modo era cambiato al punto tale da spingere il ministro Cingolani, nella sua audizione al Senato dello scorso 16 giugno, a sottolineare la necessità di una modifica del Piano stesso. Di fronte alle nuove sfide poste da Vladimir Putin, “è stato sbagliato – aveva detto – passare da un 20% di gas nazionale nel 2000 a un 3 – 4% nel 2020, senza ridurre i consumi, ma solo importando di più.” Insomma quel dato relativo alla produzione nazionale, colpevolmente archiviato, faceva nuovamente capolino, come un coniglio, dal cilindro di un prestigiatore.

C’è solo da aggiungere che, grazie al suo stellone, l’Italia aveva sofferto poco di quelle evidenti forzature tutte ideologiche. La bolletta energetica, che da sempre condiziona l’economia italiana, era infatti scesa, a seguito del crollo dei prezzi relativi (petrolio e gas). Nel 2018 il deficit era stato pari a poco più di 41 miliardi di euro, con un risparmio di oltre 20 rispetto agli anni precedenti. Ma nel 2019 e nel 2020 era diminuito ancora (solo 22,3 miliardi nel 2020) per crescere di nuovo oltre i 45 l’anno successivo. Sviluppo inquietante, ma ancora sostenibile. Nulla a che vedere con quanto accaduto nei primi 7 mesi dell’anno in corso. L’esborso per le importazioni di gas è passato da 7,027 miliardi a 32, 125. Quattro volte e mezzo tanto.

Di fronte ad una simile prospettiva, non resta altro da fare che sospendere il PiTESAI e pompare il più possibile gas dal sottosuolo italiano. Con l’obiettivo di abbattere i costi per le famiglie ed imprese, evitando così quegli scostamenti di bilancio, destinati a far crescere pericolosamente un debito pubblico (2.766 miliardi) già destinato a bruciare tutti i record precedenti. Risparmiare quel 20 per cento di importazioni, di cui parla il Ministro, significherebbe ridurre il deficit delle partite correnti della bilancia dei pagamenti in modo consistente. Fermando il salasso sui valori del 2020.

Ma perché è così importante intervenire quanto prima? La dipendenza dell’Italia dalle fonti energetiche è cosa nota. Meno conosciuto, invece, il rapporto che intercorre tra la dinamica delle importazioni delle commodities energetiche e il restante quadro macroeconomico. Il trend di lungo periodo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti italiane mostra uno stretto legame con l’andamento del prezzo del petrolio: in passato (prima dell’invasione russa) principale variabile di quel commercio. Subito dopo la crisi del ’92, ad esempio, grazie anche alla svalutazione della lira, l’Italia conobbe sia un forte avanzo delle partite correnti, che uno straordinario tasso di crescita complessivo. Sennonché allora il prezzo del petrolio era inferiore ai 20 dollari al barile.

Una manna destinata a durare solo fino al 1998. A partire dall’anno successivo il prezzo del petrolio avrebbe iniziato quella lunga rincorsa che aveva portato i prezzi a raggiungere, nel 2008, i 100 dollari al barile. Nel frattempo l’euro aveva soppiantato la vecchia lira, impedendo possibili svalutazioni. E di conseguenza i margini valutari, accumulati negli anni precedenti, si erano rapidamente esauriti. Nel 2010 il deficit delle partite correnti aveva raggiunto il 3,3 per cento del Pil, mostrando tutta la debolezza dell’economia italiana. Destinata a divenire preda, l’anno successivo, degli assalti speculativi che portarono alla crisi del Governo Berlusconi. Da allora l’Italia si era ripresa solo nel 2014, quando il prezzo del petrolio era nuovamente iniziato a scendere. Nei successivi sette anni, con un prezzo che si attestava intorno ai 50 dollari al barile, i margini erano stati rapidamente ricostruiti, grazie ad un attivo delle partite correnti che nel 2020 aveva raggiunto il 3,7 per cento del Pil.

L’Italia aveva così potuto estinguere il debito contratto, negli anni precedenti, nei confronti dell’estero (oltre il 22 per cento del Pil nel 2011) e trasformarsi in un Paese creditore. Con una posizione patrimoniale netta pari a 117,951 miliardi di euro nel primo trimestre di quest’anno, secondo i dati di Banca d’Italia. Vantaggio che la guerra di Putin, con le sue conseguenze sui mercati, rischia nuovamente di insidiare.

Per rispondere alle nuove sfide dell’orso siberiano occorre, pertanto, agire sia nel breve che nel medio periodo. Non abbandonare la partita europea su price cap, anche se le scriteriate scelte di Conte, Salvini e Berlusconi nei confronti di Mario Draghi hanno fortemente indebolito la posizione italiana. Aumentare la produzione nazionale di gas, estraendolo dal sottosuolo. Considerato che le riserve di gas del Bel Paese sono valutate (Mite) in quasi 40 miliardi di metri cubi standard. Non eccessive, ma sufficienti per scavallare gli anni più difficili. Essendo previsto per il 2024 una relativa normalizzazione della situazione.

Nel medio periodo, invece, è necessario uscire dalla dipendenza nei confronti di un mercato così esposto ai capricci della congiuntura. E allora, oltre che accrescere il peso delle energie rinnovabili (attualmente il 20 per cento del fabbisogno energetico complessivo – dati Eurostat), occorre inevitabilmente ripensare al nucleare di nuova generazione: l’unica fonte energetica capace di fornire, seppure con le dovute eccezioni, un contributo stabile nel tempo. Vincendo le resistenze dei più ostinati. Poi verranno le tecniche della fusione nucleare. Ma nell’attesa di questo prodigio, ancora di là da venire, occorrerà comunque seguire la via della sopravvivenza.

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