I flussi di petrolio russo verso l’Europa sono in rapida diminuzione. Così Mosca spinge il prodotto in Asia e Medioriente per recuperare gli introiti perduti. Potrebbe riuscire ad aggirare l’embargo europeo (con metodi che usa già ora: ecco quali), ma rimane il nodo del gas e delle infrastrutture
Tra dicembre e febbraio scatteranno le misure dell’embargo europeo sul petrolio russo, che porterà la maggior parte dei Paesi Ue a interromperne completamente l’acquisto, sulla scia degli Usa. Molti si stanno portando avanti (non l’Italia) e hanno già ridotto significativamente gli acquisti, anche grazie alle “sanzioni volontarie” di aziende restie a lavorare con Mosca. Che è costretta ad aumentare le vendite altrove, invogliando i Paesi acquirenti con barili a prezzo scontato.
TRA VENDITE E SANZIONI
Scrive Bloomberg (basandosi su dati di S&P Global Commodities at Sea) che negli ultimi mesi sono aumentate drasticamente le esportazioni russe verso Asia e Medioriente. Secondo Morgan Stanley, ad agosto India e Cina hanno comprato 2,7 milioni di barili al giorno – un aumento del 54% rispetto a un anno fa. E una serie di nazioni più piccole le hanno quasi raddoppiate, passando da 561.000 a 926.000 barili al giorno complessivamente.
Da febbraio lo sconto sul petrolio russo fluttua tra 20 e 40 dollari in meno per barile (rispetto all’indice Brent). Spesso è irresistibile per Paesi alle strette, come Indonesia, Myanmar, Pakistan e Sri Lanka, che comunque temono le ripercussioni d’immagine, ma soprattutto la possibilità crescente di incorrere in sanzioni secondarie. Un esempio su tutti: le compagnie assicurative britanniche ed europee dominano il comparto delle spedizioni marittime, e i Paesi esportatori temono di perdere l’accesso a questi servizi (spesso essenziali per entrare in porto).
NASCONDERE LA PROVENIENZA
Da parte sua, Mosca sta già facendo il possibile per facilitare il commercio e continuare a spingere il proprio prodotto. Con metodi, descritti da Bloomberg, che fanno intravedere il meccanismo con cui potrebbe schivare le sanzioni europee mascherando l’origine del proprio petrolio. Su queste colonne seguiamo da mesi le storie di trasferimento di petrolio tra navi in mare aperto – in cui un carico di petrolio russo può essere “travasato” in una nave proveniente da un porto non russo, in modo da dissimulare la provenienza.
Un’analista di Vortexa ha stimato che tra giugno e agosto circa il 20-23% della nafta, del gasolio e dell’olio combustibile russi caricati sulla costa occidentale siano stati trasferiti con questo metodo prima di raggiungere gli acquirenti. Se queste navi spengono il transponder è quasi impossibile risalire all’origine del prodotto. Motivo per cui i governi stanno facendo sempre più ricorso alla fotografia satellitare per seguire gli spostamenti delle petroliere russe.
MISCELARE IL PRODOTTO
Un altro versante complesso è quello del riassortimento dei carichi. In genere i principali hub energetici dispongono di strutture di stoccaggio dove possono miscelare i prodotti russi con altri e vendere il risultato con un’altra etichetta. Sempre Vortexa segnala che le spedizioni di olio combustibile russo sono aumentate drasticamente. Il picco è un più 500% verso gli Emirati, ma anche verso Arabia Saudita, Cina, Egitto, Malesia e Singapore si registrano forti aumenti.
“Da tempo il materiale sottoposto a sanzioni viene nascosto e fa il suo ingresso nei centri di distribuzione”, ha detto a Bloomberg John Driscoll, direttore di JTD Energy Services, “ma con l’entrata in vigore delle sanzioni russe questo fenomeno è destinato ad accelerare […] Potrebbero emergere nuove qualità e fonti”. Per capire se sta accadendo, ha aggiunto, serve vedere se le esportazioni dei Paesi che ospitano gli hub superano di gran lunga la produzione nazionale.
E IL GAS?
Sul metano si apre tutta un’altra storia. La maggior parte del gas estratto dalla Russia non può che finire in Europa per una mera questione infrastrutturale: le tubature vanno verso quella direzione. Per ovviare al problema il Cremlino vuole aumentare i flussi attraverso l’unico gasdotto che collega la Russia alla Cina: da 16 a 38 miliardi di metri cubi entro il 2025, un rivolo rispetto agli oltre 186 miliardi che nel 2021 ha mandato verso ovest.
Quei flussi sono diminuiti drasticamente (meno 80% verso la Germania, maggior importatore), tanto da costringere la Russia, le cui riserve sono colme, a bruciare il gas nell’atmosfera. Proprio questo fatto evidenzia la mancanza di alternative. Mosca ha in programma di aumentare le esportazioni di gas naturale liquefatto, ma non ha molta capacità infrastrutturale per liquefarlo (nel 2021 ne ha spedito meno di 40 mmc in tutto il mondo) e servono anni per costruire i nuovi impianti e procurarsi le navi.
L’altra via russa è un secondo gasdotto verso la Cina per aumentare le spedizioni. Ma non è detto che i due Stati riescano a costruirlo in tempo utile, viste le sanzioni sulla tecnologia occidentale: si stima che nel migliore dei casi sarà operativo dal 2026. E soprattutto è assai improbabile che alla Cina servirà altro gas dopo il 2030, a detta delle stesse consultancy cinesi. Non solo il Paese orientale dispone e disporrà di altri gasdotti con altri Paesi asiatici e terminal di rigassificazione per il gnl, ma per allora la capacità di generazione autonoma, tra rinnovabili e nucleare (Pechino vuole costruire oltre cento centrali da qui al 2030) basterà ampiamente a soddisfare i bisogni nazionali.