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Tetto agli stipendi. Dibatterne è scomodo, ma non farlo può essere peggio. Il commento di Atelli

È bene che la discussione pubblica sul punto resti aperta. Tuttavia, occorre superare la distorsione principale del dibattito svoltosi sin qui: concentrarsi sui soli pregi (veri o presunti) della soluzione normativa implementata, ignorando del tutto i lati negativi, come se non esistessero. Il commento di Massimiliano Atelli, presidente della commissione Via-Vas e della commissione tecnica Pniec-Pnrr

Nei giorni scorsi, un emendamento (durato in Parlamento lo spazio di sole 24 ore) teso a rimodulare per alcune figure apicali della Pa il tetto massimo retributivo vigente da circa 10 anni, ha riacceso i riflettori su un tema senz’altro spinoso, che non si presta a frettolose semplificazioni, esposto nel nostro complesso tempo ai refoli del moralismo populistico, ma che sottende tuttavia, a ben vedere, implicazioni di sistema, tutt’altro che banali.

La questione ripropone – e con laica intelligenza, dapprima Marcello Clarich e poi il quotidiano Il foglio, a partire dal suo direttore, hanno tenuto aperta la discussione, invitando a distinguere fra l’episodio dell’emendamento prima approvato e poi subito dopo bocciato, e il tema di fondo, che invece resta – l’interrogativo se un modello, come quello italiano odierno, che prevede che tutto il personale pubblico di fascia alta debba essere pagato nel massimo in modo identico, indipendentemente dal talento (comprovato, non sperato sulla base di curricula magari traballanti), sia il modo migliore per attirare nella Pa civil servant di particolare capacità.

Non vorrei semplificare troppo a mia volta, ma con un debito pubblico di circa 2700 miliardi di euro pensare di uscirne senza (anche) attingere al talento di persone di speciale valore, invogliandole (economicamente) a mettersi – per qualche tempo – al servizio della Pa, o, per chi già vi opera, a prendersi maggiori responsabilità (misurabili responsabilità, beninteso), è idea che merita quanto meno una discussione pubblica adeguata. Che si tenga se possibile a distanza dal riflesso di assiomi votati all’egualitarismo a tutti i costi, e che nel contempo dia ampio spazio al senso del presente e del reale.

Non è infatti detto che anche con adeguati livelli retributivi i talenti di particolare valore si lasceranno attirare dalla Pa, ma è invece estremamente probabile, se non sicuro, che – senza – non si lasceranno attrarre. Sono l’evidenza empirica e il buon senso, a restituirci questa percezione.

Siamo certi che in questi anni tetti indifferenziati nei livelli retributivi massimi del personale pubblico di fascia alta non abbiano, al contempo, generato risparmi modesti per la spesa pubblica, e dato un contributo non secondario al depotenziamento complessivo della Pa?

Continuare a coltivare l’illusione (o la presunzione) che il talento, dimostrato sul campo (e per questo ricercato sul mercato, dunque un talento conscio del proprio valore), preferisca la Pa nonostante un livello retributivo massimo non soltanto lontano da quello del settore privato (il che ci sta tutto, perché nella Pa lo spirito di servizio, per come tratteggiato in Costituzione, deve avere comunque la precedenza rispetto agli stimoli retributivi) ma, per giunta, standardizzato in modo indistinto per tutti, significa non semplicemente rifiutare, già sul piano concettuale, la declamata meritocrazia, ma anche – in concreto – rinunciare ai migliori talenti.

Il punto è delicato. Nel sistema-Italia di oggi, le diseguaglianze non mancano, e i mesi che ci attendono potrebbero vederle crescere in modo significativo; allo stesso tempo, il tema dei livelli massimi retributivi del personale pubblico di fascia alta è parte integrante del nostro attuale stato di necessità di una Pa più “forte”, che possa disporre (e sappia, prima ancora, attrarre) i migliori civil servant possibili.

In senso avverso, non sarebbe troppo agitabile, per vero, neppure il tema dell’extradeficit, perché si tratta – anche per il tetto massimo generalizzato ai compensi – di sviluppare ragionamenti alternativi che ricerchino soluzioni in grado in ogni caso di poggiare, saldamente, su criteri di appropriata selettività. Non più, dunque, un limite massimo uguale per tutta l’ampia platea interessata, ma livelli retributivi più elevati, in modo diversificato, per le posizioni realmente strategiche.

È dunque bene che la discussione pubblica, sul punto, resti aperta. Tutte le posizioni vanno ascoltate, e in ciascuna, diciamolo, ci può essere un fondo di verità. Tuttavia, occorre superare la distorsione principale del dibattito svoltosi sin qui: concentrarsi sui soli pregi (veri o presunti che siano, a seconda dal punto di vista da cui si muove) della soluzione normativa implementata, ignorando del tutto i lati negativi, come se non ne esistessero. È necessaria, al riguardo, una discussione senza pregiudizi: è certo possibile tanto rivedere (selettivamente) il tetto, quanto confermarlo, ma non senza porsi prima, apertamente, l’interrogativo se retribuire nel massimo in modo indifferenziato tutti i i players principali della Pa non significhi, anche, accettare in partenza l’idea, per il Paese, di un posizionamento da metà classifica, piuttosto che da primi posti. Ché con buoni giocatori, e senza (anche) talenti che facciano la differenza, quello è più spesso l’esito finale. Non solo nello sport.

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