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Sviluppo senza Russia e Cina. Torlizzi spiega come sopravvivere al decoupling

Terre rare

Tra economia di guerra e decoupling dai rivali sistemici, il modello mercantilista europeo è morto e il Green Deal va rivisto. Come si completa la transizione salvaguardando l’economia e riducendo la dipendenza dalle filiere in mano a Pechino? Seconda parte di una lunga intervista al fondatore di T-Commodity, Gianclaudio Torlizzi, che spiega a Formiche.net come espandere e rafforzare il blocco democratico

Tralasciando le bozze, all’Unione europea manca ancora un piano definitivo per affrontare la crisi delle bollette e superare l’inverno resistendo alla stretta economica russa. Appuntamento rimandato alla ministeriale europea di fine mese. Ma sullo sfondo si profila una sfida ben più grande, duratura e complessa. Già si intravedono gli impatti della crisi energetica sui progetti europei di transizione ecologica, in un contesto di decoupling dai rivali sistemici che renderà il processo ancora più doloroso.

Formiche.net ha raggiunto Gianclaudio Torlizzi, osservatore esperto del settore e fondatore della società di consulenza T-Commodity, per un’intervista a tutto campo, dall’emergenza in corso (esplorata nella prima parte) all’orizzonte 2050. Questa seconda parte dell’intervista è dedicata alle sfide a lungo termine, alla competizione per le risorse e il controllo delle supply chain dei beni necessari alla transizione ecologica, passando per le le prospettive per la competitività (minacciata) delle imprese europee.

Spostiamo lo sguardo sul medio-lungo periodo, alla sfida sistemica delle catene di produzione. Come si sta muovendo l’Unione europea?

Su dossier specifici come il Chips Act l’Ue si è mossa molto bene. Ma al di fuori di queste aree specifiche mi sembra che manchi ancora il senso della complessità delle sfide. Non dobbiamo solamente rimpatriare alcuni settori ad alta tecnologia (cosa peraltro già ardua, non basta insediare un impianto produttivo, ci sono competenze, fornitori…). Il punto è che bisogna riportare in patria anche produzioni dimenticate che abbiamo deciso di delocalizzare in Asia per convenienza, dimenticando la frontiera dell’approvvigionamento, questione riemersa con forza fin dallo scoppio della pandemia.

Sono sfide alla portata dell’Ue?

Non se l’Ue continua a perseguire l’austerità. Guardi cosa fanno gli Usa: non danno l’impressione di considerare i conti pubblici un problema imminente, piuttosto si concentrano sull’ampliare l’offerta produttiva, unico reale antidoto contro l’inflazione. Noi invece siamo abbarbicati al concetto europeo di mantenere un impianto produttivo leggero, economico, competitivo e in grado di esportare – un paradigma che ormai è morto, passato, perché la deglobalizzazione sta cambiando completamente la struttura che abbiamo mantenuto finora.

Come cambia il quadro economico globale?

In futuro la competizione sarà tra i blocchi di Paesi che condividono gli stessi valori. Dunque si prevede una rarefazione degli scambi commerciali con Paesi non like-minded. Dovremmo cominciare ad adottare politiche fiscali più espansive, che possano mettere in condizione soprattutto il privato di ampliare l’offerta produttiva. Dove non arriva il privato può arrivare lo Stato, o meglio ancora, l’Ue, che al fine di contenere la liquidità rimasta dovrà agire anche mediante dazi e controlli dei capitali. Ma ci sono grandi resistenze sull’abbandonare il modello economico mercantilistico in favore di uno che sia al passo coi tempi.

C’è chi sostiene che si debba evitare di dividere il mondo in blocchi.

Non deve scandalizzare questa ottica futura. Oggi siamo in economia di guerra e dobbiamo prediligere un approccio di politica fiscale coerente con questa fase storica, in cui ci stiamo allontanando sia dal principale fornitore energetico, la Russia, sia da quello di logistica e tech, ossia la Cina. Le risorse economiche occidentali vanno protette e tutelate perché vanno usate per aumentare la capacità produttiva, sia per motivi di sicurezza strategica che per controllare l’inflazione – che si può stroncare nel breve periodo con manovre recessive, ma nel medio e lungo si debella solamente ampliando il tessuto industriale.

All’atto pratico, possiamo davvero fare a meno delle risorse controllate dai Paesi autocratici?

In parte sì, disponiamo di alcuni metalli come il litio e terre rare (che rare non sono, ma sono particolarmente inquinanti da estrarre e raffinare). Però sarebbe ipocrita, nonché strategicamente pericoloso, devolvere tutto il processo ai Paesi con cui siamo in competizione geostrategica, come la Cina. Cioè quello che abbiamo fatto finora. L’Occidente si è sentito “furbo” pensando che Pechino si sarebbe sobbarcata il processo a monte della filiera green, oggi scopre che rischia di scontare questa dipendenza. Come la Russia oggi ci fa pagare la dipendenza energetica, che noi abbiamo aumentato negli anni per seguire politiche zelanti di transizione ecologica, così domani farà la Cina con terre rare e green tech.

Cosa possiamo fare per limitare i danni?

Va rivisto il Green Deal. Mantenendo l’impianto di fondo (ampliare le rinnovabili significa aumentare l’autosufficienza energetica) ma rivedendo completamente le tappe. Un piano così veloce come quello europeo andrebbe portato avanti controllando almeno in parte la filiera a monte. Il rischio è passare dalla dipendenza dal gas della Russia a quella del green tech della Cina, che lo userà come arma geostrategica nei nostri confronti. Chi controlla la materia prima e la logistica ha un potere negoziale importante.

E sul lato dell’approvvigionamento delle materie prime?

Dobbiamo ampliare il blocco delle democrazie liberali, cooptando i Paesi che hanno le materie prime. È già buono poter contare sui Paesi dell’anglosfera (come Canada e Australia, grandi produttori), ma non basta: serve accrescere la nostra influenza in Sudamerica e Africa, garantendo a quasi Paesi un percorso di sviluppo condiviso che sia migliore delle colonizzazioni mascherate e cercando di strappare alla Cina il controllo che esercita su alcune filiere dei metalli essenziali per la transizione.

Ci sono soluzioni tecnologiche preferibili ad altre per il processo di transizione energetica?

Tutte sono meritevoli di essere sviluppate dal punto di vista della diversificazione, che è una necessità. Il punto è non creare “figli di un dio minore,” il Green Deal europeo privilegia esclusivamente le rinnovabili a detrimento delle fossili, che rimarranno comunque parte del mix energetico da qui al 2050. Occhio: rispettare i nostri ambiziosi target di emissioni quando il resto del mondo non lo fa significa imporsi uno svantaggio. E la Cina userà le emissioni come arma di ricatto contro l’Occidente.

In che modo?

Bisogna capire che imporre i nostri criteri al resto del mondo costa. Soprattutto per le imprese e le famiglie europee. Se applicheremo i dazi alla frontiera legati alla CO2 (la Cbam, ndr) dobbiamo prevedere delle compensazioni per loro, perché semplicemente non siamo così ricchi da poter pagare un bene tre-quattro volte rispetto a un Paese asiatico. Occorre essere realisti e rivedere il Green Deal per evitare che l’industria Ue perda completamente la sua competitività rispetto al resto del mondo, è lì che si gioca la partita. Pechino, per dire, ha già rivisto il suo Green Deal.

Come si muovono gli avversari?

La scommessa dei Paesi orientali è quella di tenere artificialmente bassa l’inflazione e creare shock asimmetrici per sbaragliare la concorrenza con prodotti molto più economici. A quel punto la pressione dei costi sul blocco democratico sarà così dirompente che questo dovrà cedere alla ri-globalizzazione secondo i parametri dettati dai rivali. Mi sembra che l’Ue stia già subendo perché è agganciato a questa idea del green – che ha il potere di inflazionare beni e materie prime – senza dargli grande valenza, perché non gestisce la parte a monte della filiera.

E se riuscissimo a risolvere quel problema?

Una volta superato l’ostacolo la strada sarebbe in discesa, quando torneremo a reindustrializzarci il decoupling sarà più fluido. E non è escluso che anche l’Italia ne possa uscire più florida. Ma nei prossimi cinque anni il Paese deciderà il suo futuro per i prossimi cinquanta. Se sbagliamo, pregiudichiamo completamente il futuro del paese. Se l’Ue si dimostra incapace di gestire questo processo, dobbiamo cercare sponde oltreoceano.


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