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L’importanza del voto. La lezione inglese secondo Mastrapasqua

I nostri partiti potrebbero prendere d’esempio quelli inglesi che mantengono stretto e irrinunciabile il rapporto con gli elettori e con il territorio. I nostri notai istituzionali potrebbero ispirarsi alla prassi democratica di chi sa piegarsi alla scelta degli elettori. Il commento di Antonio Mastrapasqua

L’addio a Elisabetta II ha coinciso con un ultimo atto di politica nazionale non banale. La designazione formale dell’incarico alla nuova premier, Liz Truss. Per la quindicesima volta in settant’anni di regno, la regina ha svolto con spirito democratico il suo alto compito notarile – per l’ultima volta – quello di riconoscere ai legittimi rappresentanti del popolo l’onere e l’onore di indicare il capo del governo.

Ed curioso guardare con un pizzico di invidia la democrazia di un Paese che esibisce con orgoglio la sua inossidabile monarchia. Ma tant’è, si può essere democratici con un re (una regina) al posto di un presidente. Persino più democratici! La crisi del governo inglese guidato da Boris Johnson, lo scorso mese di luglio, è stata vissuta con l’understatement di un Paese solido, privo di nevrosi, capace di affidarsi alle prassi democratiche. Le dimissioni di Johnson, annunciate all’inizio dell’estate non hanno impedito al suo governo di continuare a guidare il Paese e al partito di maggioranza di avviare nel frattempo una consultazione che portasse alla scelta del successore.

Nessuna “incoronazione” dei migliori al presunto migliore, ma un voto. Un voto senza misteriose piattaforme web, gestite da soggetti privati, privi di rappresentanza. Voti, come si dovrebbero cercare e ottenere per guidare un’associazione privata come un partito politico che ambisce a decidere le sorti di un Paese e dei suoi cittadini. Voti che si cercano, si conquistano, si esibiscono per giustificare un incarico.

Da noi i voti sembrano un trauma. L’ossessione di non dividersi, di non opporsi, di non competere sembra aver reso il ricorso al voto un esercizio opzionale, non necessario nell’esercizio del metodo democratico che è tuttavia scritto a chiare lettere nella nostra Costituzione. E quale altro strumento può darsi una democrazia, che non sia il voto? E nei partiti votano gli iscritti. Un’altra categoria che sembra desueta dalle nostre parti.

Un tempo gli iscritti di un partito almeno venivano chiamati a congresso. Oddio, si può votare anche senza convocare un’assise – come ha dimostrato il partito conservatore inglese che ha scelto la Truss contro Sunak, con una semplice consultazione – ma almeno i congressi rassicuravano sulla trasparenza. Oggi se si parla di trasparenza si parla solo del finanziamento dei partiti. Capitolo fondamentale, ma certamente non l’unico – e forse nemmeno il principale – per dare patente di democraticità nelle scelte di un’associazione di militanti con la vocazione a gestire la cosa pubblica.

Votanti, iscritti, partiti e notai. Nessun reggente, nessuna tentazione di affidamento a terzi di una presunta tutela democratica. Nessun paternalismo istituzionale. Tutto nelle mani del popolo, composto sia da soggetti illuminati sia da semplici beoti. Tutti coinvolti nell’incredibile gioco democratico dove uno vale uno, per davvero. Con la scusa della crisi delle democrazie occidentali, del loro indecisionismo, della loro possibile patologia populista, il nostro Paese ha spesso virato verso forme di aristocrazia non confessata.

Si può non essere d’accordo con Winston Churchill, che considerava la democrazia la peggior forma di governo, escluse tutte le altre sperimentate finora. Si possono perseguire nuove forme di governo dei migliori, ammettendo che si sta derogando dalla democrazia, che nel voto popolare (dove l’imbecille, o presunto tale, vale un voto, come il più raffinato degli intellettuali) trova la sua prima ragion d’essere. Ma ci si deve inchinare di fronte a chi della democrazia sa fare prassi quotidiana.

I nostri partiti potrebbero prendere d’esempio quelli inglesi che mantengono stretto e irrinunciabile il rapporto con gli elettori e con il territorio. I nostri notai istituzionali potrebbero ispirarsi alla prassi democratica di chi sa piegarsi alla scelta degli elettori, senza diventare suggeritore o addirittura king maker. La regina Elisabetta ha fatto il notaio per settant’anni. E forse gli inglesi l’hanno amata anche per questo.


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