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Come ripartire il costo delle bollette di gas e benzina. I consigli di Polillo

Bonus da una parte, esempio inglese dall’altra. Vale a dire una fiscalizzazione parziale del maggior costo sostenuto per le importazioni delle forniture energetiche. Alla fine la scelta rimane, comunque, politica, e la cosa da evitare è rimanere con le mani in mano. Il commento di Gianfranco Polillo

Due le possibili soluzioni per far fronte al costo delle bollette petrolifere: i vari bonus, già sperimentati dai precedenti governi o l’esempio inglese. Vale a dire una fiscalizzazione parziale del maggior costo sostenuto per le importazioni delle forniture energetiche. Gas o petrolio? Questa possibile opzione, a sua volta, dipenderà dai costi e dalle scelte politiche conseguenti. Il punto di partenza è dato comunque dai numeri. Che, a loro volta, dipendono dalle riforme che si intendono introdurre nelle regole di mercato. Price cap, da un lato, o da modalità di contrattazione diverse dal casinò di Amsterdam. Troppo piccolo per riflettere, al di là dei movimenti speculativi, il reale equilibrio tra domanda ed offerta, in questo caso, del gas.

Calcoli di questo genere possono essere, ovviamente, solo approssimati. Troppe le variabili in gioco. Ne deriva che, al momento, si può parlare solo di un costo presunto: sia per il prezzo del gas che per quello del petrolio. Attualmente il secondo oscilla tra gli 89 (Brent) e gli 83 (WTI) dollari al barile, ma voci insistenti parlano di un accordo, in sede Opec+, per un taglio delle forniture (1 milione di barili al giorno) in grado di stabilizzare il prezzo sui 100 dollari il barile. Che dovrebbe divenire la nuova frontiera del relativo commercio. Per il gas, poi, le incertezze sono anche maggiori. A causa dei riflessi di un prevalente dato politico (la manipolazione russa), che regala benefici anche ai produttori europei, come l’Olanda o la Norvegia.

Lo scorso anno, secondo i dati forniti dell’Istat (commercio estero e prezzi all’import), le forniture energetiche sono costate all’Italia quasi 55 miliardi di euro. Soprattutto per il petrolio: 41 miliardi. Mentre per il gas sono stati spesi poco più di 13 miliardi. Un sogno, rispetto ai valori attuali. Nei primi 7 mesi di quest’anno per il petrolio l’Italia ha speso quasi il doppio (198 per cento). Mentre le importazioni di gas sono costate 3 volte tanto. Nonostante ciò il petrolio continua a farla da padrone, visto che ha inciso per il 66 per cento della spesa complessiva. Una parte della quale a favore di Putin, essendo la Russia, soprattutto un esportatore di greggio.

Per fine anno il trend dovrebbe continuare, anche se, per la verità, le cose dovrebbero andare meglio. Se non altro a causa dell’avvitarsi di una congiuntura non favorevole, le cui conseguenze sulla tenuta dei prezzi alle materie prime sarebbero immediate. Per scaramanzia, tuttavia, si può evitare di tener conto di questo elemento. In questo secondo caso l’Italia, dopo diversi anni, dovrebbe chiudere il 2022, con un deficit della sua bilancia commerciale. Dato che troverebbe conferma nelle previsioni, a legislazione invariata, della Nadef, secondo la quale si passerebbe da un surplus delle partite correnti della bilancia dei pagamenti dal 2,4 per cento dello scorso anno, ad un deficit dello 0,8. Con un peggioramento di 3,2 punti di Pil.

Dal settore energetico deriverebbe un deficit pari ad oltre 143 miliardi di euro, contro i 41 del 2021. Tre volte tanto. Si passerebbe così da un costo pari al 3 per cento del Pil, ad uno pari a quasi il 7,5. Che sarebbe interamente responsabile del peggioramento delle partite correnti indicato in precedenza. Con la parte del leone assegnata al petrolio, che totalizzerebbe un deficit pari al 62 per cento dell’intero comparto, mentre il gas sarebbe responsabile del rimanente 38 per cento. Oltre 96 miliardi, contro 47.

Nei mesi trascorsi, il governo era già intervenuto sui maggiori costi della bolletta petrolifera, agendo sui diversi prodotti finiti. Per la benzina era intervenuto soprattutto sulle accise, utilizzando come copertura il maggior gettito dell’Iva. Secondo i dati del ministero della Transizione ecologica, il prezzo medio mensile alla pompa, nel mese di settembre, era stato più o meno pari a quello di un anno prima: 1,687 euro a litro. Mentre quello al netto delle accise e dell’Iva era passato da 6,401 a 9,051 con un incremento del 41,4 per cento. Aumento che veniva interamente sterilizzato, riducendo le accise da 0,728 a 0,478 euro al litro. Con una percentuale pari al 34,3 per cento.
Completamente diverso il caso del gasolio per il riscaldamento. Nello stesso periodo, il prezzo, al netto delle imposte, era aumentato di quasi il 60 per cento (da 0,673 a 1,075 al litro). Le accise, invece, era non rimaste uguali. Mentre il gettito dell’IVA passava da 0,237 a 0,325 al litro. Con una crescita del 37,27 per cento. Con la conseguenza di determinare un aumento del prezzo al pubblico del 12,46 per cento: da 1,313 a 1,803 euro al litro.

Scelte, come si vede, ben diverse. A loro volta motivate dal differente impatto che i prodotti di base potevano avere sul quadro economico complessivo. Nel primo caso, quello della benzina, si cercava di evitare un aumento eccessivo del prezzo alla pompa, per non alimentare ulteriormente la spirale inflazionistica. Il trasporto su gomma, nella realtà italiana, ha un peso fortissimo sulla movimentazione delle merci. Di conseguenza il recupero dei maggiori costi non avrebbe fatto altro che trainare il prezzo di altri prodotti alimentando lo scarica barile della progressione inflazionistica. Colpendo, invece, il gasolio da riscaldamento, si penalizzavano solo i consumi finali. Scelta comunque dolorosa, ma meno devastante.

Nei confronti del greggio, le soluzioni sperimentate, pur con mille difficoltà, si sono dimostrate positive. Andranno quindi ulteriormente prorogate, tenendo ovviamente conto del loro impatto sul bilancio dello Stato. Nel campo del gas e quindi dell’energia elettrica, invece, siamo ancora molto indietro. Innanzitutto perché l’aumento del prezzo, come detto in precedenza, è stato ben maggiore. Quindi perché quasi tutte le centrali che producono energia vanno a gasolio. Mentre quelle a carbone o ad olio combustibile si contano sulle punte delle dita di una mano.

Il maggior costo del gas, nell’ultimo trimestre dell’anno, per effetto del trascinamento dei mesi precedenti, dovrebbe essere pari a poco più di 8 miliardi, mentre per il petrolio la cifra aumenterebbe a circa 19 miliardi. Volendo intervenire solo sul gas e quindi sul prezzo dell’energia elettrica, il costo non risulterebbe eccessivo. Anche perché non sarebbe necessario rifonderlo interamente. Basterebbe decidere il livello cui attestarsi. Resta comunque da vedere il come farlo. Ragioni diverse protendono per l’una o l’altra soluzione. Fiscalizzando si avrebbe una relativa semplicità nell’esecuzione, ma una scarsa attenzione per la diversità degli interessi coinvolti. Il bonus, invece, consentirebbe una maggiore selezione, ma anche il rischio di pratiche elusive. Per non dir di peggio. Alla fine la scelta rimane, comunque, politica. Comunque che si faccia. La cosa da evitare è rimanere con le mani in mano.

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