Più consumi culturali, ruolo familiare incentivante verso tali consumi, riduzione dei possibili utilizzi distorsivi dello strumento e maggiori conoscenze sugli interessi degli italiani. I lati positivi sono tali da rendere l’idea degna di essere analizzata più nel dettaglio. L’intervento di Stefano Monti, partner di Monti&Taft
Negli ultimi anni, in Italia sono state approvate misure e politiche volte ad incentivare la domanda culturale.
È il caso delle domeniche al museo, ma anche di finanziamenti diretti (come la 18app).
Queste misure, in pratica, comportano una riduzione delle risorse pubbliche (mancati incassi per i Musei nel caso degli ingressi gratuiti o spese dirette nel caso dei bonus), per favorire i consumi culturali.
In particolare, il bonus 18app, (anche se un discorso analogo può essere estendibile anche alle altre misure), prevede un trasferimento di denaro a favore di una particolare categoria di cittadini con lo scopo di incentivarne i consumi culturali.
L’assunto da cui si parte è che, in pratica, se un individuo inizia a spendere in cultura poi continuerà anche quando non avrà più sussidi. Tale assunto, è opportuno ribadirlo, è confortato da una serie di ricerche afferenti al campo delle neuroscienze, sia da altre tipologie di indagini, legate piuttosto allo storico dei consumi.
In pratica, i risultati combinati di tali indagini rendono plausibile la teoria (sebbene ulteriori studi al riguardo siano più che necessari), secondo la quale durante la fruizione culturale (osservare un dipinto, assistere ad uno spettacolo teatrale, ecc.), il nostro cervello rilasci dopamina, neurotrasmettitore collegato alle sensazioni di gratificazione, e che, producendo piacere, porti dunque gli individui a consumarne nel tempo una quantità crescente.
Ciò che colpisce, però, è che la stessa dinamica che fornisce a tali politiche una propria validità intrinseca sia anche la condizione che ne determini un’iniquità di fondo: in altri termini, si trasferiscono risorse a coloro che prevedibilmente non consumano cultura al fine di incentivarne i successivi consumi, ma non si premia chi spende già parte del proprio reddito per andare a teatro o visitare un museo.
Una misura differente, e che potrebbe giovare l’intera popolazione, è quella di prevedere un meccanismo di deduzione dei consumi culturali familiari, ove per deduzione si intende uno specifico strumento fiscale che riduce il valore del reddito complessivo che viene utilizzato come base imponibile.
Chiaramente, tale meccanismo dovrebbe essere strutturato in modo da garantirne un’equità contributiva, così da evitare che gli strati più ricchi della popolazione possano trarre un beneficio maggiore rispetto alle fasce meno agiate. Così come chiaramente tale meccanismo andrebbe ben progettato, tenendo conto degli effetti economici diretti ed indiretti ad esso associati, al fine di individuarne non solo le coperture, ma anche i benefici attesi di medio termine.
A prescindere dagli elementi più prettamente tecnici, si tratterebbe in ogni caso di uno strumento che se ben comunicato e veicolato, potrebbe portare ad un incremento generalizzato dei consumi culturali della popolazione con meccaniche di sviluppo più che proporzionali.
A ben vedere, infatti, oltre agli aspetti più prettamente fiscali, riassumibili in “consumi più cultura e paghi meno tasse”, questa misura consentirebbe di spostare, in modo sottile, la dinamica dell’incentivo, coinvolgendo direttamente le famiglie.
I genitori, in questo caso, sarebbero di certo invogliati ad indirizzare il figlio verso consumi “deducibili”, come andare a vedere un concerto, visitare un museo, o andare al cinema, e ciò consentirebbe anche di inquadrare il “consumo culturale” all’interno delle pratiche educative tipiche del contesto familiare, con impatti attesi di certo più forti rispetto al solo legame chimico.
Anche a fronte dei potenziali oneri che da tale incentivo potrebbero derivare, la misura andrebbe gestita secondo modalità che ne consentano un adeguato monitoraggio e controllo.
Tra le tante possibili modalità, una scelta semplice, come l’utilizzo di carte prepagate nominali, potrebbe rivelarsi particolarmente efficace.
In primo luogo, perché consentirebbe di isolare all’origine i flussi monetari interessati da questo tipo di incentivo, e questo potrebbe rendere applicabile un controllo automatizzato su tutte le spese registrate.
In secondo luogo perché potrebbe altresì consentire un’indagine puntuale dei consumi culturali associati non solo alla politica nel suo complesso ma anche, chiaramente anonimizzati, ai consumi culturali legati alle singole carte.
Ciò permetterebbe di avviare altre politiche di incentivo, non basate sulle logiche meramente monetarie, ma basate sugli interessi specifici di coloro che “consumano cultura”: per un Museo, ad esempio, avere l’elenco dei consumi culturali delle persone che hanno visitato una determinata mostra, potrebbe essere un’informazione molto importante, soprattutto se analizzata in modo informatizzato.
Allo stesso modo, una sala cinematografica potrebbe così apprendere, ad esempio, da quali consumi cinematografici precedenti siano arrivati gli spettatori di uno specifico film, creando così dei nessi che consentano anche di generare specifiche promozioni per creare incentivi culturali e non soltanto economici.
In questo senso, una tale manovra consentirebbe alle venues tradizionali, di disporre di un set d’informazione che attualmente è quasi esclusivo appannaggio delle venues digitali.
Così da ridurre un gap di informazione tra colossi digitali e quella moltitudine di piccoli o grandi soggetti che, nel nostro Paese, tanto in ambito pubblico quanto in quello privato, continuano a fondare le proprie strategie come si faceva ormai “un mondo fa”.
Più consumi culturali, ruolo familiare incentivante verso tali consumi, riduzione dei possibili utilizzi distorsivi dello strumento e maggiori conoscenze sugli interessi degli italiani.
I lati positivi sono tali da rendere un tale strumento almeno degno di essere analizzato più nel dettaglio.