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Il centrodestra che conosciamo è finito. Il mosaico di Fusi

Il duello in atto tra Meloni e Berlusconi è nient’altro che la lotta per chi deve comandare e ognuno la combatte con le armi che più risultano proprie a ciascuno dei due: Silvio mediante le indicazioni delle sue favorite nei posti di comando; la leader FdI con la determinazione di chi sa che non deve niente a nessuno. La rubrica di Carlo Fusi

C’è stato chi, nell’elezione di Ignazio La Russa a presidente del Senato, ha voluto vedere – con una punta di compiacimento alcuni e di rassegnata delusione altri – la fine dell’antifascismo. Tesi agitata con un qualche eccesso di disinvoltura che invece meriterebbe più approfondite e convincenti analisi. Quel che al contrario l’elezione della seconda carica dello Stato (c’è anche quella della presidenza della Camera ma ha un altro sapore e significato) sicuramente dimostra, è la fine del centrodestra per come lo abbiamo imparato a conoscere da una trentina di anni a questa parte.

Può apparire paradossale che un tale fenomeno si manifesti ad appena tre settimane dalla clamorosa vittoria elettorale di quel medesimo impasto politico-sociale con annessa conquista della maggioranza assoluta sia a Palazzo Madama sia a Montecitorio. Invece lo scontro tra la ragazza “arrogante” e il vecchio patriarca “da cui non mi faccio ricattare” sono il naturale epilogo di un tragitto che vede tutti uniti quando si tratta di arrivare al traguardo e immediatamente divisi una volta conquistata la vetta.

Perché manca il collante. O se volete il padre-padrone. Il centrodestra l’ha inventato Silvio Berlusconi nel 1994 come operazione al tempo stesso geniale e incompiuta: la necessità, per lui e per le sue aziende, di tenere lontane le sinistre dalla cittadella del potere; l’obbligo di dover disporre di una coalizione asimmetrica con la Lega di Bossi al Nord, e l’An di Fini al Sud.

Quel triangolo sbilenco si è andato nel tempo assestandosi anche in virtù della prospettiva di governo ma sempre con il Cav a capo, indisponibile ad ascoltare ragioni diverse dai suoi interessi politici e aziendali, tenacemente detentore del bastone del comando. Questo assetto è saltato nel 2018 quando Matteo Salvini scalzò FI dal piedistallo di partito più votato. Berlusconi si acconciò formalmente alla novità, ma quell’un-due-tre compitati dietro al capo leghista nelle consultazioni al Quirinale spiegavano bene il suo stato d’animo e la sua voglia di restare sul proscenio.

Il problema lo risolse lo stesso capo leghista lasciando la coalizione di appartenenza per fare il governo con il M5S di Luigi Di Maio. Berlusconi benedì l’operazione, magari tirando un sospiro di sollievo perché allontanava la questione dei rapporti di forza. Idem col governo Draghi, dove Berlusconi entrò assieme a Matteo, immaginando di lasciare Meloni a rinsecchire all’opposizione.

Tante giravolte che tuttavia avevano chiaro il timbro della progressiva dissolvenza del Signore di Arcore e della ruggine progressiva e corrosiva impadronitasi della sua Durlindana fatta di tv e cerchi magici.

Il trionfo di Meloni nelle urne ha definitivamente seppellito il centrodestra del secolo scorso. Il duello in atto tra lei e Silvio è nient’altro che la lotta per chi deve comandare e ognuno la combatte con le armi che più risultano proprie a ciascuno dei due: Berlusconi mediante le indicazioni delle sue favorite nei posti di comando; la leader FdI con la determinazione di chi sa che non deve niente a nessuno. Quanto a Salvini, fa il pendolo come sempre scegliendo la sponda che al momento gli sembra più conveniente. Una volta voleva fare il partito unico con Silvio per ridimensionare Giorgia; ora si stringe a lei per mettere fuori gioco l’anziano numero uno.

È presto per dire come questa sorta di guerra civile ad alta intensità, si concluderà. Meloni non può perdere, Berlusconi non può vincere. Presumibilmente, si troverà un qualche accordo per far nascere un governo che alla fine conviene a tutti. Ma il centrodestra come l’abbiamo imparato a conoscere è finito. Il primo è durato sei lustri, quello che nasce adesso chissà. Tuttavia una cosa è definitiva come l’altra. L’elezione di La Russa ha mandato in tilt sia la maggioranza sia l’opposizione, confermando un processo disgregativo degli schieramenti di centrodestra e centrosinistra più volte richiamato da chi scrive.

È un processo inarrestabile perché corrisponde a una nuova articolazione sociale nel Paese prima ancora che politica nel Palazzo. La scomposizione sarà dolorosa, e altrettanto avverrà per l’eventuale ricomposizione. È la crisi del sistema che si squaderna con tutta la sua forza. Speriamo che l’Italia regga.


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