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Presidenti delle Camere, i motivi di scelte identitarie. La lettura di Cazzola

I dem? La smettano di piagnucolare. La partita del 25 settembre non è chiusa del tutto. Anzi, da un momento all’altro potrebbe riaprirsi proprio per le difficoltà della squadra avversaria. Sarà bene, in questo caso, farsi trovare pronti. Il commento di Giuliano Cazzola

Sono bastate poche sedute della XIX Legislatura per mettere in evidenza che la maggioranza, pur avendo ricevuto dalle urne un rilevante consenso, non avrà davanti a sé un cammino senza problemi, anche gravi. Ciò vale, in primo luogo, per la complessità della situazione internazionale e delle diverse emergenze che ne sono il corollario. Nelle prossime settimane, infatti, potrebbero venire all’ordine del giorno decisioni che richiedono risposte a cui le forze della maggioranza non sono preparate (ed è dubbio che ne siano disposte).

È il destino dei partiti sovrano-populisti (lo abbiamo già visto nel caso del M5S) nel momento in cui vengono chiamati a governare da un elettorato sprovveduto e masochista: si trovano a dover scegliere tra lo sfasciare il Paese se intendono mantenere le promesse fatte all’elettorato o a smentire se stessi e accantonare le loro avventate proposte.

Se si ritorna alle cronache della evoluzione delle forze politiche nella passata legislatura, emerge con nettezza la staffetta tra le due opzioni spesso determinata da bruschi cambiamenti di indirizzo e vere e proprie rotture delle precedenti alleanze (ad esempio: il passaggio dal Conte 1 al Conte 2 fino al governo Draghi e alla sua caduta). Il fatto è che, nel primo atto della legislatura (l’elezione dei presidenti della Camere) i principali problemi sono sorti all’interno della maggioranza, che al Senato non ha votato in maniera compatta per Ignazio La Russa in seguito ad un contrasto intervento tra il Cav e le presidente in pectore e avente per oggetto la composizione del governo: una questione che – al di là del caso di Licia Ronzulli – lascia intravedere una reale difficoltà di Giorgia Meloni a formare quel governo di alto profilo di cui si è vantata subito dopo l’esito del voto.

Per adesso sembra essere maggiore il numero di coloro che hanno declinato l’invito rispetto a quello di quanti sgomitano per farne parte. L’unica candidatura che potrebbe corrispondere alle indicazioni, per ora è solo quella di Giancarlo Giorgetti al Mef, in un ruolo di ministro “amico’’, ma non rappresentativo della Lega e del suo leader. Giorgetti è abituato a non sentirsi coperto dal suo partito: gli è successo tante volte da ministro del governo Draghi.

In questa storia dei nomi, però, vi sono elementi di sopravvalutazione, perché qualunque ministro, anche se serio, competente e ben orientato è pur sempre vincolato agli indirizzi generali della politica del governo. Abbiamo già assistito, nel primo governo Conte, ai salti mortali che era costretto a fare Giovanni Tria per tenere aperto un rapporto con Bruxelles, mentre i due “uomini forti’’ di quell’esecutivo non esitavano a sconfessarlo.

Daniele Franco, addirittura, se ne andò dalla RGS a causa delle pressioni ricevute quando c’erano da “bollinare’’ le norme della legge di Bilancio 2019. Credo che si sia ricordato di quell’esperienza quando ha declinato – come si dice – l’invito a restare nel palazzotto di via XX settembre sulla poltrona che fu di Quintino Sella.

Venendo, ora, all’evento clou della settimana trascorsa, i profili delle due personalità elevate al rango della seconda e della terza carica dello Stato (Ignazio La Russa e Lorenzo Fontana) hanno sollevato parecchie critiche e riserve. È assolutamente vero che si sia trattato di scelte “identitarie’’, rappresentative dell’anima e della storia dei loro partiti. Tanto che Salvini è passato da Molinari a Fontana, dopo la elezione di La Russa.

Il neo presidente del Senato è il trait d’union con il post-fascismo; già protagonista dei gravi conflitti che insanguinarono Milano negli anni ’70, quando le formazioni di estrema sinistra si vantavano dello slogan “uccidere un fascista non è reato’’ e quando San Babila era divenuta la centrale dell’estremismo di destra.

Fontana riassume su di sé (si vada a leggere il suo discorso d’insediamento sia per le cose che dice, sia per le omissioni) tutti i fantasmi della vecchia e delle nuova Lega: dalla cultura delle “diversità’’ di marca bossiana, all’omofobia, al tradizionalismo religioso, alla critica a quei nuovi “diritti civili’’ (che nella politica della sinistra hanno preso il posto del marxismo-leninismo), fino a uno smaccato filo-putinismo per gli stessi motivi del Patriarca Kirill.

È stato opportuno compiere (soprattutto alla Camera, visto che La Russa è stato eletto grazie ai voti dell’opposizione) delle scelte di personalità tanto schierate? Vi sono due possibili significati che possono essere considerati insieme. Da una parte La Russa e Fontana rappresentano la spada di Brenno che la coalizione vittoriosa ha gettato sul piatto della bilancia degli sconfitti. “Siamo arrivati fin a qui, hic manebimus optime. Abbiamo il diritto di esporre le nostre insegne, di premiare quelli che hanno combattuto per la  nostra causa’’. Nello stesso tempo, però,  quei militanti, onorati con incarichi prestigiosi, vengono giubilati in un ruolo istituzionale per tutta la legislatura, che impedirà loro di prendere parte all’agone politico. Questo ragionamento è più valido nel caso di Fontana, mentre per quanto riguarda La Russa, la sua elezione potrebbe essere un atto di riconoscimento per la persona, ma anche rappresentare la chiusura di una fase storica di una forza politica che, a causa delle sue radici, ha vissuto tanti anni di solitudine ed emarginazione.

Infine, un’ultima considerazione rivolta al Pd e agli altri partiti di opposizione, che continuano a beccarsi tra loro come i polli di Renzo. I dem hanno attribuito alla loro sconfitta un significato palingenetico, epocale, irreversibile. E si stanno preparando a compiere una lunga marcia nel deserto verso una terra promessa di cui è dubbia persino l’esistenza; tanto che rischiano di smarrirsi, in piccoli gruppi, tra le dune ad adorare il vitello d’oro. Gli eventi della settimana trascorsa dovrebbero aver convinto il Pd di essersi fasciato la testa prima che fosse rotta.

La partita del 25 settembre non è chiusa del tutto. Anzi, da un momento all’altro potrebbe riaprirsi proprio per le difficoltà della squadra avversaria. Sarà bene, in questo caso, farsi trovare pronti, servendosi degli occhi non per spargere lacrime amare, ma per seguire ciò che accade e cogliere  le eventuali opportunità. In politica non esistono ultime trincee.

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