Le dinamiche del prossimo Congresso del Partito comunista cinese mostreranno quanto Xi ha approfondito il controllo su di esso. Ottenuto il terzo mandato, si concentrerà sulla politica estera di una Cina che vuole proporsi come garanzia di pace e stabilità internazionale. Di questi temi si discuterà nel seminario “Worse than the Cold War” di lunedì 17 ottobre presso la John Cabot University
Gli esiti del prossimo Congresso del partito Comunista Cinese saranno determinanti per capire come evolveranno le relazioni tra Cina e Stati Uniti e come attori quali la UE si posizioneranno in questo quadro di crescente antagonismo. I lavori si apriranno la prossima settimana. I risultati riguarderanno principalmente la capacità di Xi Jinping di consolidare o meno la sua monarchia all’interno del Partito. Questo dipende principalmente dalla configurazione dello Standing Committee del Politburo che emergerà dal Congresso. Il ruolo chiave lo giocheranno tre figure. Wang Yang membro dell’attuale Standing Committee e probabile futuro Premier, considerato uno dei più liberali all’interno della leadership cinese. Li Xi segretario del Partito dell’importante provincia del Guangdong e membro del Politburo. Hu Chunhua, vice premier e membro del Politburo, vicino alla Lega della Gioventù Comunista, considerata un contraltare della fazione del Presidente Xi.
Le fazioni interne al Partito dirette da queste tre figure sono le più indipendenti da quelle di Xi. Due posizioni sono al momento “aperte” nello Standing Committee e i candidati più forti del Politburo sono certamente Hu Chunhua e Ding Xuexiang (considerato il potenziale delfino di Xi al momento). Se Xi vorrà, e potrà, modificare la regola informale sui limiti di età per la partecipazione allo Standing Committee portandola dagli attuali 67 anni ai 66 anni ad esempio, costringerà Li Keqiang (67 anni), Wang Yang (67 anni) e Wang Huning (67 anni) a ritirarsi aprendo così tre nuove posizioni. In questo scenario l’autonomia dello Standing Committee si ridurrà a vantaggio della fazione dominante di Xi Jinping.
Per quanto riguarda la posizione internazionale di Pechino, la guerra in Ucraina e la neutralità “pro-russa” hanno accelerato un allineamento delle China policies di Washington e Bruxelles. Tuttavia se per gli USA la Cina è una minaccia diretta al mantenimento della loro supremazia globale, per l’Europa Pechino da una parte minaccia i sistemi di governance nei quali Bruxelles si riconosce, ma dall’altra è diventata un partner commerciale “ineludibile” in molti settori industriali, compresi quelli funzionali alla transizione energetica resa impellente dalle tensioni con Mosca.
La Germania rappresenta perfettamente questo dilemma. La sua dipendenza energetica dalla Russia è direttamente proporzionale a quella commerciale e industriale con la Cina. Nonostante la volontà degli industriali tedeschi e le intenzioni del ministro dell’economia Robert Habeck di “ridurre” la dipendenza dalla Repubblica Popolare, Berlino non può sostenere il peso di una crisi energetica con Mosca e una guerra commerciale con Pechino, come sembrano volere a Washington. Nei giorni scorsi negli Stati Uniti è stato approvato un provvedimento “storico” che autorizza il US Bureau of Industry and Security (BIS) a tagliare fuori dalle supply chain americane ogni società cinese che non collabora con le sue richieste. Pechino si troverà chiuse le porte di quasi tutte le aziende Europee (e non solo) che rientrano in queste filiere.
Ed ecco giungere l’annuncio del prossimo viaggio del cancelliere Scholz a Pechino a inizio novembre proprio nel momento in cui le elezioni di midterm potrebbero azzoppare la presidenza Biden consegnando una o due camere del Congresso ai repubblicani. La possibile fragilità della presidenza Biden potrebbe riverberarsi in un’accelerazione della contrapposizione con Pechino, unico tema bipartisan in auge negli Usa al momento, rischiando di imporre a Berlino un costo forse troppo alto. Non sarà una coincidenza quindi che la visita di Scholz sia stata sponsorizzata in primis proprio dall’ambasciatrice tedesca negli USA?
Altro punto: la guerra in Ucraina. Pechino ha creduto in un primo tempo che un conflitto in Ucraina potesse rallentare l’enfasi americana sul mar della Cina meridionale e su Taiwan, ma è avvenuto esattamente il contrario: secondo gli analisti cinesi gli Usa stanno realizzando un “grande accerchiamento” mirato a un contenimento strategico ai danni di Pechino. Tralaltro, la formula ricorda le cinque campagne di accerchiamento realizzate dai nazionalisti che costrinsero i comunisti alla famosa Lunga Marcia.
Secondo Wu Xinbo, direttore del dipartimento di Studi Americani della Fudan University, vi sono delle assonanze tra le sanzioni occidentali alla Russia e la competizione strategica con Pechino. Anzitutto la strumentalizzazione dell’interdipendenza fatta attraverso l’applicazione di criteri di “sicurezza” alle relazioni economiche. La seconda è la trasformazione del dollaro e dei sistemi di pagamento Swift in strumenti geopolitici. La terza è il ritorno dell’ideologia, o meglio dei “valori”, come elemento discriminante delle relazioni internazionali.
Come ha scritto il Quotidiano del Popolo in un recente editoriale, per affrontare l’egemonia americana e proteggere lo sviluppo pacifico della Cina si deve avere il coraggio di lottare. Ed è questo comune interesse a lottare contro “l’egemonia americana” che avvicina Mosca e Pechino. Ma è una vicinanza opportunistica. Non si vede alcun concreto supporto dato da Pechino a Mosca al di fuori della copertura politico mediatica. Un esempio concreto: la Cina è il maggior produttore di droni al mondo ma i russi nell’ultimo attacco a Kiev hanno usato droni iraniani.
Se si osserva l’estetica dei quotidiani cinesi si nota come da una parte i cinesi sottolineano l’instabilità dell’Occidente e l’aggressività americana che ha generato e fomenta la guerra in Ucraina. Al contempo, sebbene interpretino le azioni russe come risposta alle provocazioni americane, anche in questo caso lasciano trapelare un disappunto sull’uso sconsiderato della forza. Ed ecco dunque che la Cina, distinguendosi dai “guerrafondai egemonici” americani, dal caos politico economico dell’Occidente e dall’irrazionalità bellica di Putin, si presenta come garanzia di stabilità, sviluppo e pace.