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Cosa può imparare la cultura dall’industria della difesa

Da un lato la difesa, dall’altro la cultura, ciò che hanno in comune questi due settori, entrambi in qualche modo fondamentali per il nostro vivere democratico, è il rapporto di interdipendenza che sussiste tra la dimensione politica e quella industriale. Alcuni fattori-chiave sulla futura Difesa Europea, possono essere “utilmente” presi in prestito proprio dalla cultura stessa. L’intervento di Stefano Monti, partner di Monti&Taft

Sembra quasi una provocazione, ma è tutt’altro. Per questo motivo, prima di entrare in false polemiche, è opportuno avviare alcune premesse.

In primo luogo non si vuole qui creare alcuna sorta di parallelismo tra la cultura e le dimensioni belliche, quanto piuttosto prendere “in prestito” una riflessione sorta in ambito militare, e valutare come, da tale riflessione, siano emerse indicazioni che potrebbero essere utili anche per il settore culturale.

Detto ciò, pur rimarcando l’estraneità di ogni parallelismo, ci sono alcune “concettualizzazioni astratte” che possono accomunare tali dimensioni.

Abbiamo da un lato un concetto, quello di Difesa, concetto che parte della dottrina giuridica rinviene all’interno dei principi fondamentali della Costituzione, e più precisamente, all’articolo 11.

A fronte di questo concetto c’è poi un’industria, che è quella tendenzialmente “militare”, che non gode di molta simpatia, quantomeno all’interno di una parte della popolazione che interpreta l’articolo 11 come un assoluto ripudio ad ogni forma di conflitto.

Dall’altro lato abbiamo un altro concetto, quello di Cultura, anch’esso inserito all’interno dei principi fondamentali della Costituzione.

Così come nel caso della “difesa”, anche la cultura ha una propria industria, e anch’essa non gode di molte simpatie tra una parte della popolazione, quantomeno da coloro che sono sempre pronti a gridare alla “mercificazione della cultura”.

Da un lato la difesa, che è questione prettamente politica, e dall’altro l’industria bellica, che ha sicuramente un peso politico, ma che è anche espressione industriale.

Da un lato la cultura, che è questione prettamente politica, e dall’altro le industrie culturali e creative, che hanno sicuramente un peso politico, ma che sono anche espressione industriale.

Ciò che dunque hanno in comune questi due settori, entrambi in qualche modo fondamentali per il nostro vivere democratico, è il rapporto di interdipendenza che sussiste tra la dimensione politica e quella industriale.

È all’interno di questo perimetro concettuale che alcune affermazioni sorte all’interno del dibattito sulla futura Difesa Europea, possono essere “utilmente” prese in prestito dalla cultura.

Come riportato da Formiche.net, infatti, all’interno del dibattito sulla Difesa, il ceo di Leonardo, Alessandro Profumo, è recentemente intervenuto indicando quelli che, a proprio avviso, sono alcuni fattori chiave di sviluppo, e più nel dettaglio:

  1. Prevedibilità all’industria;
  2. Tutela del comparto europeo;
  3. Autonomia produttiva all’interno di un’organizzazione sovranazionale;
  4. Riduzione della frammentazione;
  5. Definizione di una mappatura della tecnologia esistente.

Si tratta, per la cultura, di raccomandazioni importanti, non solo perché effettivamente “efficaci” per il comparto, ma anche perché tali raccomandazioni emergono in un contesto molto interessante, e vale a dire all’interno di un dialogo tra rappresentati di natura politica e rappresentanti di natura industriale, in un contesto in cui l’importanza della componente industriale è pienamente riconosciuta.

Il comparto culturale non ha al momento questo potere: si tratta di due segmenti produttivi estremamente differenti, con un peso in termini di fatturato e di occupazione differentemente distribuiti e, soprattutto, con un differente “dato storico”.

Le ICC sono tutto sommato un’invenzione recente, così come recente è la comprensione dell’importanza che l’approccio imprenditoriale/industriale ha nei meccanismi di diffusione culturale.

Ciò significa, che se da un lato i decisori politici concordano nell’identificare il cluster delle industrie culturali e creative come un comparto produttivo e di servizi ad elevato valore aggiunto potenziale, dall’altro gli stessi decisori politici non hanno ancora piena consapevolezza dell’impatto reale che tale comparto produttivo di fatto generi.

Ma significa, anche, che queste stesse lacune sono presenti anche nello stesso comparto delle Icc: troppe le differenze tra le imprese riunite nel comparto; troppe le esigenze contrastanti; scarsa la capacità delle imprese di trovare dunque una dimensione organizzativa unitaria che non sia di diretto appannaggio politico; elevata invece la tendenza da parte del settore politico a trattare la “cultura” come un comparto a metà strada tra la comunicazione e un’industria al servizio del comparto turistico.

La cultura, quindi, dovrebbe da subito “far proprie” queste indicazioni che provengono da un’industria che, proprio come la cultura, vive a metà tra la dimensione politica e la dimensione imprenditoriale, e che, a differenza della cultura, ha però maturato negli anni una solida esperienza di gestione dei rapporti tra tali componenti.

Il messaggio che più di sovente emerge dagli esponenti del comparto culturale si può riassumere come una richiesta di incremento della spesa pubblica per la cultura; richiesta che in sé, nutre pochissimi segnali informativi, non contenendo né l’oggetto specifico della spesa (in alcuni conti Istat si intende per cultura e tempo libero anche il gioco del Lotto), né le modalità attraverso le quali un incremento della spesa culturale (spesso richiesto in punti percentuali del Pil) debba essere effettuato, o come da tale incremento possa derivare un aumento più che proporzionale delle dimensioni economiche del comparto e degli effetti produttivi, economici, culturali e sociali all’interno del tessuto sociale.

Ricordando che un generico incremento di spesa in punti percentuali rispetto al Pil può essere ottenuto anche in caso di spesa invariata ma decrescita del Prodotto Interno Lordo, vale dunque la pena “prendere in prestito” le indicazioni di Profumo.

A differenza dell’incremento generico della spesa, ad esempio, richiedere alla “politica” un’azione che garantisca “prevedibilità” all’industria, significa, per l’industria, avere piena contezza dei piani di spesa pluriennali, e ciò implica quindi anche la possibilità di strutturare dei processi di crescita aziendale interna di medio-lungo periodo.

La tutela del comparto europeo implica una “difesa” delle produzioni culturali realizzate in Europa, richiedendo al committente pubblico di favorire quelle industrie culturali e creative attive in ambito comunitario. Ci si dimentichi per un attimo dei “musei”: questa indicazione è più adatta a comparti come “software”, “videogames”, “audiovisivo”, “editoria”, “servizi culturali alle imprese”.

L’autonomia produttiva all’interno di un’organizzazione sovranazionale implica invece che ogni Paese può (e forse deve) avviare dei cicli di produzione che garantiscano la disponibilità di prodotti e servizi culturali realizzati all’interno del proprio territorio, ma può anche implicare una politica di coordinamento tra le differenti produzioni nazionali finalizzata all’identificazione di specializzazioni territoriali.

Se queste prime tre indicazioni sono volte ad ottenere dei “miglioramenti” nel rapporto tra dimensione politica e dimensione imprenditoriale della cultura, le ultime due suggestioni sono invece volte a definire, attraverso l’azione politica, un comparto ben più strutturato e meglio organizzato. Prendiamo ad esempio la mappatura della tecnologia esistente: molti degli interlocutori pubblici sono semplicemente ignari della tecnologia che oggi è possibile applicare in istituzioni culturali. O sono completamente all’oscuro del fatto che tali tecnologie possano essere applicate ad un costo sostanzialmente marginale. Tecnologie come il Crm (Customer Relationship Management) sono ancora rare all’interno dei musei gestiti direttamente dalla Pubblica amministrazione. Eppure di tali tecnologie sono spesso presenti anche versioni completamente gratuite. Ed è questo il caso di una tecnologia oramai quasi superata da altre forme di “gestione delle relazioni”. Si pensi dunque a quante tecnologie siano ad oggi disponibili per il comparto culturale, e come la scarsa informazione al riguardo infici lo sviluppo del comparto.

La riduzione della frammentazione è poi l’elemento centrale. Concentrandosi anche soltanto sull’espressione imprenditoriale culturale e creativa del nostro Paese, l’elemento di frammentazione è in qualche modo “strutturale”, in quanto espressione di un’autonomia imprenditoriale diffusa su tutto il territorio. A differenza degli altri comparti, però, la riduzione della frammentazione non può avvenire semplicemente favorendo la formazione di Reti Temporanee d’Impresa che partecipino a gare d’appalto o di concessione: va piuttosto stabilita, in accordo tra industria e politica, quali siano le strade per favorire una maggiore redditività complessiva del comparto, tenendo conto di tutte le dimensioni che tale comparto coinvolge. Si può, ad esempio, stabilire, che la strada più efficace per avere una produzione culturale e creativa solida sia quella di favorire l’emersione di grandi player capaci di poter competere sui mercati internazionali: ed in questo caso vanno favorite, concretamente, le operazioni di fusione e di acquisizione nel comparto; al contrario, si può stabilire che la “pluralità” dei soggetti possa essere una ricchezza fondamentale per lo sviluppo integrato del territorio: allora vanno favorite realtà locali, facendo in modo che le stesse possano tuttavia avvalersi di competenze, prodotti e servizi realizzati da imprese più ampie.

In definitiva, è possibile affermare ognuna delle indicazioni emerse nel dibattito tra difesa e industria militare, sia potenzialmente applicabile anche al comparto culturale.

Soprattutto, è possibile affermare che, quando applicata al comparto culturale, ognuna di queste indicazioni può essere contestata, avvalorata, respinta o acclamata.

In quanto tale, possa essere espressione di una “politica industriale” reale per il comparto.

Ed è questo ciò di cui le industrie culturali e creative hanno realmente bisogno.

 

 

 

 



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