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Cultura e Welfare, riflessioni su un’equazione non sempre valida

La domanda, ormai, non è più se la cultura possa avere degli effetti positivi sulle persone o su determinati gruppi sociali, o ancora su interi territori. La domanda è comprendere “come” far sì che questi obiettivi possano essere realmente perseguiti. L’analisi di Stefano Monti, partner di Monti&Taft

Sono molti gli studi che negli ultimi 30 anni hanno evidenziato come la fruizione culturale possa avere degli impatti positivi sulla vita delle persone.

Sono stati evidenziati effetti positivi sul livello di interazione sociale, sulle ricadute in termini di salute (oggettiva e/o percepita), sul livello di reddito, sul livello di benessere individuale.

Prese singolarmente, sebbene la rigida metodologia con cui siano state eseguite, tali ricerche possono anche essere messe in discussione: è improbabile che il solo atto di frequentare i musei prevenga dal cancro, o che vedere più concerti di musica classica aumenti la longevità.

La validità di tali ricerche, però, non va tanto ricercata in una tutto sommato indimostrabile correlazione lineare causa-effetto. Va piuttosto individuata in un più generale quadro d’insieme. E questo quadro d’insieme ci indica che, ad oggi, esiste un gruppo sempre più cospicuo di indagini che sottolinea che la cultura e la fruizione culturale ha impatti positivi sulla vita individuale e collettiva delle persone.

È in questo quadro generale che il binomio cultura e welfare può acquisire un significato concreto, perché è in questo quadro che la cultura può diventare un effettivo strumento di welfare.

Meglio detto, è in questo quadro che la cultura può rappresentare una delle dimensioni strategiche attraverso le quali una serie eterogenea di attori presenti all’interno di un dato territorio, può definire azioni integrate al fine di incrementare il livello di benessere collettivo.

Questa affermazione, tuttavia, sottintende alcuni assunti di base che è opportuno esplicitare.

In primo luogo si afferma che la cultura sia una dimensione strategica: e questo implica che la dimensione culturale può rappresentare in primo luogo una “specifica dimensione”, ed in quanto tale, una dimensione che abbia un perimetro definito.

Da ciò deriva, in sintesi, che nel complesso delle attività poste in essere, coloro che sono coinvolti nella realizzazione di azioni che potenzialmente possono creare benefici collettivi debbano operare delle scelte di intervento. L’agire strategico deve sicuramente tener conto dell’elemento di aleatorietà che contraddistingue i sistemi complessi (il mondo reale), ma deve pur sempre essere definito per perseguire obiettivi specifici.

È chiaro che la cultura può generare benefici su larga scala, e che possa essere utilizzata per ottenere molteplici effetti sulla popolazione, che sia l’incremento della percezione di appartenenza ad una comunità, la creazione di un contatto tra enti territoriali e cittadini, la definizione di “momenti distensivi” o il potenziamento di un determinato tipo di “segmento imprenditoriale”.

Ed è altrettanto chiaro che è proprio grazie a questa plurivalenza che la cultura ha acquisito negli ultimi decenni un ruolo così importante.

È però necessario che ogni intervento venga inquadrato all’interno di questo processo, perché altrimenti la vaghezza sfugge di mano, ed è quello che abitualmente succede quando, alla fine del mandato, le amministrazioni comunali, che fino a quel momento alla cultura hanno dedicato ben poco interesse, pongono in essere spettacoli, concerti, eventi alle volte del tutto discutibili.

In tal senso la cultura persegue uno scopo, ed uno scopo specifico: quello della campagna elettorale. Ed è uno scopo che nulla ha a che fare con il benessere collettivo a causa del carattere estemporaneo, che demanda ad una non meglio definita categoria di effetti secondari gli effetti di medio periodo che la cultura può innescare all’interno della popolazione, tanto a livello individuale che sociale.

È forse meglio chiarire questa opinione. È chiaro che anche in questi casi si possano innescare cambiamenti profondi: un ragazzo può innamorarsi del suono perturbante di un Sitar o scoprire una passione smodata per il teatro. Ma è, per così dire, un effetto collaterale, i cui frutti vengono integralmente demandati all’attitudine del singolo. E questo è welfare fino ad un certo punto. Lo diventa se al concerto l’Amministrazione Comunale associa un corso per imparare a suonare il Sitar e, quindi, se il concerto non avviene alla fine del mandato. Se, insomma, quel concerto non è il colpo di scena con il quale le serie Tv instillano negli spettatori la voglia di vedere il prossimo episodio.

La necessità di definire quindi degli interventi che non abbiano un carattere spot e isolato, ma che siano invece inseriti in una più ampia serie di azioni finalizzate a generare degli specifici obiettivi socialmente desiderabili nel territorio, è sostanzialmente la base concettuale dalla quale deriva un’altra caratteristica essenziale del rapporto tra cultura e welfare: la collaborazione tra attori eterogenei.

Nonostante si registri un sempre maggiore accordo nell’interpretare il territorio come un sistema complesso, non si tiene conto di una delle premesse fondamentali che tale tipo di interpretazione comporta: qualsiasi cambiamento prodotto nel sistema genera modifiche non necessariamente lineari, non solo all’elemento modificato, ma a tutti gli altri elementi del sistema.

Riprendiamo l’esempio di prima: c’è anche la possibilità che, oltre alle ovvie implicazioni di natura elettorale, il Comune abbia concentrato i propri investimenti in interventi puntuali anche a causa di una tendenziale indisponibilità di risorse: c’erano risorse nel bilancio per poter organizzare singoli concerti, ma non per realizzare dei corsi di musica.

La scarsità delle risorse, oltre che ad essere un presupposto fondativo dell’economia, è anche una realtà empirica. E una delle conseguenze più positive di questa realtà è che l’assenza o la scarsità di risorse è stata storicamente alla base del processo di collaborazione tra esseri umani.

Nei nostri territori la collaborazione tra agenti differenti è sempre più frequente, ma di rado essa coinvolge una strategia realmente integrata. L’assunto di base è invece che la realizzazione di una strategia che miri, attraverso la cultura, all’incremento del benessere collettivo degli abitanti di un territorio prevede invece una cooperazione più verticale e continuativa.

Collaborazione che, tuttavia, non deve essere intesa esclusivamente nell’accezione di “co-finanziamento”. Se il Comune non ha risorse per realizzare dei corsi gratuiti di Sitar, allora può definire con una scuola privata di musica un accordo in base al quale il Comune realizza eventi che potenzialmente incuriosiscano i cittadini verso lo strumento, e la scuola di musica, nel realizzare i corsi, riserva un numero minimo di posti ad abitanti che siano al di sotto di una determinata categoria di reddito.

Parte di questi corsi gratuiti potrebbero essere economicamente sostenuti dai ricavi che la scuola di musica ottiene dalle rette degli altri partecipanti al corso, parte invece potrebbero essere sostenuti attraverso azioni che contemplino il coinvolgimento anche del terzo settore e dei cittadini.

Soprattutto, la partecipazione di tutti i soggetti dovrebbe essere definita in modo da prevedere l’azione diretta, e non soltanto l’erogazione di risorse economiche.

Il coinvolgimento consapevole degli altri agenti del territorio permette infatti una maggiore diversificazione delle fonti, e quindi anche una migliore efficacia generale degli interventi di welfare. Ma non solo: la partecipazione diretta abilita ad un incremento dei “legami identitari e sociali” del territorio. E ciò consente di creare benessere territoriale “nel mentre” si realizzano azioni finalizzate a creare benessere territoriale. Una leva che spesso viene amabilmente trascurata.

La domanda, ormai, non è più se la cultura possa avere degli effetti positivi sulle persone o su determinati gruppi sociali, o ancora su interi territori. La domanda è comprendere come far sì che questi obiettivi possano essere realmente perseguiti.

È quel come a definire se un processo risulterà essere efficace, o soltanto un “consumo” di denaro pubblico. Ed è in quel come che potranno emergere degli esempi specifici, che non cerchino di replicare processi che hanno avuto successo in un luogo qualunque del pianeta.



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