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Donne e minoranze, la protesta iraniana spiegata da Bassiri Tabrizi

Jina Amini, uccisa dal regime, era una donna curda. Nuovi gruppi demografici, i giovani e le donne, così come minoranze etniche, guidano le proteste. In Iran, spiega Bassiri Tabrizi (Rusi), il regime non ha ancora davanti a sé una rivoluzione. Ma è chiaro che stia subendo un’erosione delle legittimazione

“Le manifestazioni esplose da tre settimane in Iran coinvolgono una nuova fascia demografica, le giovani donne, che prima non erano leader nei movimenti sociali visti negli anni scorsi, e questo dimostra uno strato nuovo di disaccordo e malcontento contro le politiche del regime”, spiega Aniseh Bassiri Tabrizi, del dipartimento di International Security Studies al Rusi College di Londra.

In diversi iniziano a suggerire di non definirle più semplici “manifestazioni”, ma cominciano a parlare “rivoluzione”, perché la portata di quello che sta accadendo – a livello di coinvolgimento e durata – è certamente storica. Tuttavia, secondo l’esperta di Iran, quando si tratta di valutare le potenzialità a lungo termine, ” va detto che mancano ancora le basi”.

“Le manifestazioni sono ancora disorganizzate, non hanno un vero leader, e non hanno ancora un reale carattere di movimento sociale”, spiega Bassiri Tabrizi in una conversazione con Formiche.net. “Certamente – continua – sono positive, perché sono spontanee e rappresentano varie componenti della società iraniana, sia dal punto di vista sociale che etnico”.

L’assenza di una strutturazione delle manifestazioni e dell’opposizione al regime è un problema a cui si abbina la repressione avviata – subito – per fare in modo che questa minaccia non acquisisca una dimensione più preoccupante. “La risposta è stata classica, uso della violenza e tentativi di contenimento: il regime vuole dimostrare di avere la situazione sotto controllo e va detto che di fatto non sembra troppo minacciato da ciò che sta accadendo. Anzi ne ha approfittato per giustificare l’uso della forza anche contro altri potenziali problemi, come le istanze separatiste dei curdi nell’Ovest del Paese”.

Mahsa Amini, la ragazza morta per le percosse subite mentre era sotto custodia della polizia morale di Teheran (che l’aveva arrestata perché non indossava correttamente l’hijab), era curda. Il simbolo internazionale di ciò che sta accadendo in Iran, non solo è una donna, ma appartiene anche a una minoranza etnica costantemente vessata – e non solo nella Repubblica islamica. Era a Teheran in gita con la famiglia, partita da Saqqez, al confine col Kurdistan iracheno. Là nei giorni scorsi il Sepâh ha usato la scusa del sedare le proteste per lanciare attacchi contro i gruppi identitari locali.

Il nome della ragazza ventiduenne uccisa dalla polizia iraniana era Jîna, che in curdo significa “vita”. Jîn è etimologicamente legato a Jin, la parola curda per donna. “Jin, jiyan, azadî”, “donne, vita, libertà” cantano i manifestanti curdi. Ma il mondo conosciuta Amini con il suo nome iraniano: Mahsa. La discriminazione della Repubblica islamica nei confronti dei curdi comprende un diffuso divieto di usare nomi curdi, che costringe molte famiglie a registrare ufficialmente i propri figli con “nomi persiani”, pur mantenendo i loro nomi reali in casa.

“Nonostante una minaccia della rivoluzione non pare palese, è evidente che sia in corso una erosione continua della legittimità del regime davanti a vari gruppi demografici ed etnici. Le proteste si moltiplicano, dal 2017 sono diventate sempre più frequenti con una diversità sempre maggiore nelle ragioni per cui emergono. La legittimazione della leadership è messa a rischio e a lungo andare il contesto potrebbe cambiare e la minaccia rivoluzionaria crescere di sostanza”, spiega Bassiri Tabrizi.


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