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Il fronte militare e quello politico-finanziario di Vladimir Putin

Il presidente russo rischia di uscire sconfitto sul terreno militare, ma non su quello di natura strategica, nei rapporti con tutto l’Occidente, a partire dall’Europa. Tutte le difficoltà – e i vantaggi – nel risiko internazionale del leader del Cremlino

Il paradosso non é ancora così evidente, ma destinato ad emergere, con il trascorrere del tempo. Vladimir Putin rischia di uscire sconfitto sul terreno militare, ma non su quello di natura strategica, nei rapporti con tutto l’Occidente, a partire dall’Europa. Il monito lanciato da Mario Draghi per convincere i riottosi leader europei a ritrovare la strada dell’unità nella complicata vicenda dell’energia ne è un segnale. E’ proprio la partita con l’Occidente che più interessa al capo del Cremlino, rispetto alla quale l’invasione stessa dell’Ucraina rappresenta solo un tassello, seppure straordinariamente importante.

Le difficoltà incontrate dal suo corpo di spedizione, in quella terra martoriata, sono lampanti. Difficilmente potranno portare ad una sconfitta campale, considerato il potenziale nucleare di cui Putin dispone, ma certo è che lo spettro dell’Afganistan aleggia da tempo su quei campi di battaglia. Le cause sono al tempo stesso materiali e psicologiche. Gli uomini mandati al fronte non sono motivati. Non capiscono le ragioni vitali della guerra. Spesso sono stati imbrogliati dai loro stessi comandanti sulle missioni da compiere. Il nemico che hanno di fronte, invece, combatte per sé stesso, la propria terra e la propria libertà. E contro questa forza primigenia non è facile spuntarla.

Poi esiste il problema degli armamenti. Quelli russi sono vecchi ed obsoleti. Spesso veri e propri residuati bellici, buttati nella mischia, sulla base di errate valutazioni da parte dell’intelligence. Altro grande limite delle forze armate russe. Le informazioni fornite ai comandi generali si sono dimostrate del tutto inadeguate, contribuendo a falsare l’intero quadro strategico. Le armi fornite dall’Occidente all’esercito ucraino, al contrario, pur non essendo quelle di ultima generazione, sono nettamente superiori. Ed hanno consentito prima di fermare l’invasione, poi di contrattaccare.

A dimostrazione di quanto detto, basti pensare al ruolo degli Shahed-136, i cosiddetti droni kamikaze di produzione iraniana. Armi eccellenti, centrali nella nuova strategia terroristica russa contro obiettivi di carattere civile. Strategia che mira a compensare gli smacchi subiti nel confronto diretto tra i due eserciti. Armi comunque importate da un Paese, come l’Iran, il cui sviluppo economico, finanziario e tecnologico non dovrebbe essere paragonabile a quello russo. Ed invece così non è: segno evidente di una debolezza congenita, che è la vera palla al piede di in Paese, la Federazione, che vive prevalentemente sugli allori della rendita petrolifera. Avendo abbandonato, da tempo, ogni idea di sviluppo più complessivo.

E sono sempre petrolio e gas le armi utilizzate per colpire l’Occidente. Per disarticolarne la coesione interna, al fine di ridurne la forza complessiva. L’azione svolta dalla Russia, in seno al gruppo Opec+, è stata quella di puntare ad una riduzione dell’offerta complessiva (2 milioni di barili al giorno) per spingere il prezzo oltre i 100 dollari al barile. Azione contrastata dalla decisione americana di ridurre del 15% le riserve strategiche, al fine di contenere gli aumenti dei prezzi della benzina. Mentre il controllo quasi assoluto della Russia sulle forniture di gas, in Europa, ha prodotto conseguenze politiche nefaste, che solo oggi si cerca di contenere, grazie agli importanti risultati dell’ultimo vertice europeo.

Misure significative, seppure tardive. Come mostra la crisi politica di alcuni Paesi, in parte riflesso del mutamento intervenuto negli andamenti del ciclo economico internazionale. A partire dalla Gran Bretagna. Le dimissioni del premier Liz Truss, immortalata dalla copertina dell’Economist, vestita da pretoriana romana, una pizza napoletana come scudo ed un forchetta, che trabocca di pasta asciutta, come lancia, ne sono la più evidente dimostrazione. Sebbene l’analogia con l’Italia non sembra essere così calzante, a meno di non prendere per buoni gli stereotipi sul Bel Paese da parte della stampa inglese.

Comunque sia, la crisi inglese è reale. A monte di tutto l’azzardo della Brexit, che ha isolato la Gran Bretagna dall’ombrello europeo. Sgangherato quanto si vuole, comunque meglio di niente, nel fragore delle grandi turbolenze internazionali: Covid prima, guerra poi. Quel misto di inflazione e di recessione ha fatto emergere tutte le contraddizioni inglesi: la debole crescita economica, il costante squilibrio della bilancia dei pagamenti, il forte deficit di bilancio, il fardello di un debito estero che si aggiunge a quello pubblico, in aumento. Fenomeni presenti nella maggior parte degli altri Paesi europei. Ma dagli effetti meno devastanti grazie alla presenza di una banca centrale, la Bce, ben più attrezzata di quella inglese nel difendere il valore della moneta.

Le pressioni sulla sterlina e la crescita degli spread, dopo le improvvide anticipazioni di una politica finanziaria fin troppo allegra, hanno fatto precipitare la situazione (un monito per tutti), alimentando dimissioni a catena: da Kwasi Kwarteng, cancelliere dello scacchiere a quelle di Liz Truss. Per la gioia del Cremlino, che brinda una seconda volta, dopo aver assistito alla caduta di Boris Johnson, solo qualche mese prima. Entrambi grandi supporter di Zelensky, al quale avevano fornito grandi quantitativi di armi ed un appoggio internazionale incondizionato.

Ma un mezzo successo i russi lo avevano anche ottenuto, costringendo Mario Draghi alle dimissioni anticipate. Si voleva eliminare dalla scena politica europea un personaggio scomodo. Prima che potesse fare danni, impostando una politica energetica, come quella ottenuta proprio giovedì scorso, seppure in zona Cesarini. Una politica tesa a limitare il potere di Gazprom, grazie ad una diversa politica energetica, i cui capisaldi erano: price cap, diversificazione delle fonti, costruzione di nuovi hub orientati verso il Mediterraneo, decoupling tra i prezzi del gas e dell’energia, acquisti comuni, nuove regole per la determinazione dei prezzi di mercato, al fine di contenere i processi speculativi. Ed, infine, la costruzione di un meccanismo europeo di finanziamento per ridurre l’impatto del caro energia su famiglie e imprese.

In Italia chi operò per conto di Mosca (consapevolmente o inconsapevolmente interessa poco) fu soprattutto Giuseppe Conte, che ora mira a rifarsi una verginità attaccando Antonio Tajani: definendolo unfit. Negò al Governo la fiducia, nonostante la presenza dei ministri pentastellati. Fu l’inizio di un domino, in cui si distinsero sia Matteo Salvini, che Silvio Berlusconi. Quest’ultimo, ancora attivo, nel disseminare di ordigni esplosivi il difficile cammino di Giorgia Meloni, nella formazione di un nuovo Governo, teso a difendere gli interessi della Nazione. Trappole, al momento neutralizzate, ma, come diceva Lorenzo il Magnifico: “di doman non c’é certezza”.

Infine: Olaf Scholz. La Germania soffre in modo particolare della crisi internazionale. Le sue esportazioni incontrano difficoltà crescenti, a causa della stasi del commercio mondiale. Grande produttrice di beni capitali, questi ultimi hanno subito forti contraccolpi dalla generale caduta degli investimenti. A sua volta, l’eccessiva dipendenza energetica dal gas, sebbene quello sovietico sia stato ottenuto a prezzi scontati rispetto ai concorrenti europei, ha spinto verso l’alto l’inflazione. E l’aumento dei prezzi in un Paese, il cui credo è nella stabilità finanziaria, ha corroso ogni aspettativa: imprese che non investono e famiglie che non consumano, per risparmiare. In attesa di tempi ancora più bui.

Da qui la mossa quasi disperata di prevedere un sussidio, pari ad oltre 200 miliardi di euro, per abbattere i costi delle bollette. Ipotesi che, se non congelate, avrebbe contribuito a divaricare ulteriormente la realtà europea, accrescendo la divergenza tra i Paesi più ricchi e quelli più poveri. Pericolo al momento scongiurato. Ma molto dipenderà se i punti di vantaggio, finora accumulati da Putin, saranno progressivamente neutralizzati. Il che può avvenire solo a due condizioni: che in Ucraina si ponga fine, al più presto, alla superiorità aerea russa, fornendole armi comunque difensive, ma più sofisticate. Che l’Europa, sempre più “ventre molle” dell’Occidente, sappia ritrovare la necessaria coesione, per evitare che Putin possa compensare la propria debolezza tecnologica, con lo scompaginamento del fronte avverso.


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