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Il regime non potrà sopprimere a lungo la Generazione Z iraniana

I manifestanti che protestano in Iran sono composti in gran parte da giovani che non si riconoscono nel sistema di pensiero e governo della Repubblica islamica. Per la teocrazia non sarà facile fermarli, e non potrà per sempre spingere le repressioni

In un’intervista al quotidiano economico iraniano Donyaye Eqtesad, il sociologo Maghsoud Farastkhah ha detto che i manifestanti, che sono online come i loro coetanei in altre parti del mondo, vogliono una vita normale che è ancora fuori portata per loro a causa del sistema politico chiuso del loro Paese. “La generazione Z si vede in un’atmosfera distopica”, ha detto Farastkhah.

Il governo iraniano è esperto nel reprimere le proteste, così come nell’usare strumenti di coercizione per controllare le masse. Per questo certe manifestazioni come quelle che sono in corso da circa tre settimane si portano con sé un cupo senso di fatalismo.

La rabbia si sta diffondendo per le strade tra coloro che rivendicano diritti e libertà, sfogo scaturito dopo l’assassinio di Mahsa Amini, la ragazza morta dopo le percosse subite dalla polizia morale, che l’aveva arrestata perché non indossava correttamente il velo. Si fondono i problemi economici e una cascata di altre frustrazioni represse in una nazione che soffre da quattro decenni il peso asfissiante della dittatura teocratica imposta dal regime khomeinista guidato da Ali Khamenei.

La rivolta è portata avanti dai giovani, mobilitati in tutto il Paese anche se in maniera acefala, come faceva notare su queste colonne l’iranianista Annalisa Perteghella, toccando uno dei problemi essenziali delle manifestazioni anti-regime. Tuttavia, pur senza una guida, città dopo città le proteste di studenti e altri comuni cittadini iraniani sono dilagate perché effettivamente le restrizioni draconiane sulle libertà individuali stanno diventando pesanti. Il velo per le donne è un simbolo di queste compressioni liberticide.

“Donne, vita, libertà!” e “morte del dittatore” canta chi scende in strada rischiando di finire vittima dei pestaggi che il regime ha commissionato a delinquenti prezzolati che si aggirano come sicari mafiosi. Il Visual Forensics del Washington Post ha analizzato migliaia di prove, documentando in modo eccezionale le brutalità delle autorità iraniane. Sono circa 100 i morti, tra loro altre due ragazze uccise dalle autorità locali (vicende che hanno ulteriormente infiammato le passioni popolari). Più di mille persone sono state arrestate, tra cui decine di giornalisti locali.

La violenza delle forze di sicurezza e i blackout quotidiani (internet chiuso per evitare la diffusione di informazioni e documentazioni) ha reso i manifestanti ancora più determinati — e in alcuni casi hanno iniziato a rispondere con la violenza alla violenza.

La retorica della rivoluzione e della resistenza agli imperialisti occidentali, che fa sopravvivere la Repubblica islamica da quattro decenni  si sta rivelando più vuota che mai. Ora quei manifestanti stanno portando avanti una loro forma di ribellione, contro quell’establishment che nel 1979 fu protagonista della rivoluzione islamica guidata da Ruhollah Khomeini.

“Si ha l’impressione che qualcosa si stia disfacendo, come se il progetto della Repubblica islamica si stia esaurendo e l’onda nera scatenata dalla rivoluzione del 1979 stia scemando, esaurita dalle ricorrenti proteste che si sono susseguite dal 2009 e che hanno raggiunto nuove vette dal 2017”, scrive Kim Ghattas sull’Atlantic.

All’estero, lo sdegno verso il regime iraniano è al livello più alto degli ultimi anni. Proteste di solidarietà con le donne iraniane hanno avuto luogo in varie città del mondo. E se in Occidente si tratta di forme (anche politicizzate) di solidarietà, umanitarismo e difesa dei diritti, altrove la sofferenza contro il regime iraniano e i suoi tentacoli è sentita. Vedere il Libano o l’Iraq, dove chi protesta contro i governi locali chiede anche di sganciarsi dal peso dell’influenza costruita dai Pasdaran come vettore per accrescere il ruolo regionale di Teheran.

Il livello di rabbia nei confronti dello status quo segna una svolta rispetto alle precedenti manifestazioni di protesta? 

Nel 2009, le ultime grandi proteste del Movimento Verde, chi era sceso in strada protestava per le elezioni di Mahmoud Ahmadinejad, considerate truccate, e chiedeva appoggio agli altri partiti politici. “Il discorso di quel movimento era un discorso riformista, non chiedeva una rottura completa del quadro della Repubblica islamica”, come ha spiegato sul Los Angeles Times Mohammad Ali Kadivar, studioso dell’Iran al Boston College.

“Uno degli aspetti più sorprendenti dell’attuale movimento è che è composto per la maggior parte da giovani iraniani sotto i venticinque anni, che si identificano come qualcosa di più di semplici oppositori dell’ideologia islamista: sono dichiaratamente estranei alla mentalità della vecchia generazione, compresi i politici anti-regime”, ha scritto Mehdi Khalaji del Washington Institute for Near East Policy.

La loro rabbia può riflettere un’esplosione sociale più che un movimento politico. Ma questo non la rende meno potente. “Una svolta rivoluzionaria non dipende necessariamente dal numero di manifestanti attivi; nasce da una situazione di stallo”, ha argomentato il giornalista iraniano Mahzad Elyassi. Dopo il discorso dell’Ayatollah Khamenei, che — parlando durante la cerimonia con cui i cadetti della polizia si graduavano — ha definito le proteste “rivolte” e ha incolpato un complotto straniero per i disordini, l’ostruzione non è mai stata così chiara”.

Il regime si protegge in modo classico, accusando un fantomatico nemico esterno, ma il suo problema è interno e riguarda il futuro della collettività iraniana. Quei giovani non si accontenteranno in fretta, e non è chiaro per quanto tempo ancora sarà possibile reprimerli.


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