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Dalla politica all’economia. Putin e i suoi paradossi secondo Polillo

La guerra doveva consacrare la Russia come grande potenza, capace di reggere il confronto con l’intero Occidente. I risultati di questa avventura sono quelli che sono. In compenso gli squilibri interni non sono tra i più confortanti. Le nuove previsioni del Fmi indicano una caduta del Pil per l’anno in corso e quello successivo, pari rispettivamente al 3,3 e al 2,2 per cento. L’analisi di Gianfranco Polillo

Gli storici di domani, costretti a misurarsi con le vicende di questo inizio di millennio, difficilmente potranno esprimere un giudizio positivo sulla figura di Vladimir Putin. Che, agli occhi dei posteri, apparirà come una sorta di moderno Ulrich, il protagonista del romanzo di Robert Musil: “L’uomo senza qualità”. Ed in effetti, se si analizzano i fatti, con il necessario disincanto, sono ben poche le cose di cui il nuovo Zar può andare fiero.

Come condottiero è stato un fallimento. Il blitzkrieg, la guerra lampo che doveva portare alla completa sottomissione dell’Ucraina, si è trasformata in una battaglia senza fine. Con una sola certezza: non vi sarà alcun vincitore, ma solo un futuro compromesso, più o meno onorevole. Al tempo stesso il confronto sul terreno ha messo in luce la debolezza delle forze armate russe. Demotivate, male armate, un equipaggiamento obsoleto, la ferocia contro i civili al posto del normale eroismo che si richiede ai belligeranti. Se non fosse per l’arsenale nucleare, lascito del vecchio regime, la guerra d’Ucraina sarebbe terminata da tempo, con la sconfitta delle truppe d’occupazione.

Come statista, ha creato intorno a sé il vuoto. Isolato sul piano internazionale, come hanno dimostrato le due condanne dell’Assemblea generale dell’Onu, i suoi più importanti alleati (Cina e India) ne hanno preso le distanze. Non hanno potuto recidere un legame più organico solo a causa dei complicati arabeschi della politica estera. In un mondo che, dal punto di vista politico, stenta ad avere una struttura multipolare, evitare di appiattirsi sull’Occidente, rappresenta ancora un’opzione da non trascurare.

Come leader del suo Paese, infine, sono i dati economici che ne certificano la modestia. Quasi venticinque anni di potere assoluto. La parentesi Medvedev fu solo una piccola furbizia, dovuta a un vincolo costituzionale facilmente aggirabile e aggirato. In questo lungo lasso di tempo poteva contribuire alla rinascita della nazione. Considerato che stiamo parlando di un Paese super dotato di risorse naturali. La Siberia è una specie di cassaforte che racchiude giacimenti di petrolio inferiori solo a quelli del Venezuela e dell’Arabia saudita. Le riserve di gas, a loro volta, sono le più estese del mondo. E poi: i nichel, oro, piombo, carbone, molibdeno, gesso, diamanti, diopside, argento e zinco. Per non parlare dell’uranio. Talenti sprecati, come nella parabola del Vangelo. Potevano essere la leva per una trasformazione radicale del Paese. E invece si sono tradotti in ciò che gli economisti hanno battezzato con il termine della “maledizione delle risorse”. Vale a dire l’abbondanza che premia l’indolenza e scoraggia ogni sforzo per realizzare un sovrappiù. O se si vuole, richiamando Marx, un plusvalore.

Eppure la storia più antica qualcosa doveva insegnare. A partire da quell’evento traumatico del 17 agosto del 1998, che portò al default del debito pubblico della Federazione russa e alla contestuale svalutazione del rublo. Conseguenza degli errori compiuti negli anni precedenti, a causa di una politica economica fin troppo prona alle logiche monetariste della scuola di Chicago. Come pure i relativi successi degli anni seguenti, che furono segnati da due eventi convergenti: l’ascesa di Vladimir Putin al vertice del Cremlino e la forte crescita del prezzo del petrolio, che portò nelle casse della Federazione le risorse necessarie per pagare i debiti precedenti e andare avanti. Non proprio bene, come vedremo, ma comunque, almeno provvisoriamente, fuori dal pantano.

Nel decennio 1999/2009, il tasso di crescita medio annuo fu pari al 4,7 per cento. Nel decennio successivo si ridusse, invece, allo 0,9. Per divenire quasi inesistente (0,04 per cento) nelle ultime previsioni del Fmi al 2027. I primi anni dell’era Putin, la sua golden age, furono segnati dal tentativo di inserire la Federazione nel grande circuito dell’economia mondiale. Scelta che accumunava la Russia a quanto era avvenuto in Cina e in Vietnam. Il limite della nomenclatura fu quello di non saper utilizzare gli enormi proventi delle esportazioni (gas, petrolio ed altri minerali) in un progetto di sviluppo capace di imporre all’indolente società russa una frustata salutare lungo la via di uno sviluppo, nel segno della modernizzazione. Al contrario quelle risorse furono utilizzate per accrescere le riserve valutarie del Paese e garantire a un pugno di oligarchi una vita da nababbi.

Con un’economia troppo dipendente dal ciclo internazionale, il risveglio, duro risveglio, avvenne a seguito della crisi dei subprime americani. Nel 2009, in conseguenza di quei fatti, il Pil russo crollò del 7,8 per cento: due volte e mezza l’analoga caduta intervenuta nella media delle economie avanzate. Due le cause fondamentali: la fuga dei capitali, sia esteri che autoctoni, a seguito delle maggiori incertezze dei mercati finanziari, ed il crollo nei prezzi del petrolio, che ne ridusse le fonti di autofinanziamento. Anni comunque terribili non solo per la Federazione, ma per la stragrande maggioranza dei Paesi avanzati. Si pensi solo a quanto accadde, subito dopo, in Grecia o in Italia. La crisi poteva, quindi, essere gestita anche dalla Piazza Rossa di Mosca. Ma questo non avvenne.

Putin scorse, invece, in quelle vicende i segni premonitori della crisi dell’Occidente. L’inizio irreversibile di un mutamento dei rapporti di forza che avrebbe portato, di lì a poco, a un’alterazione degli equilibri fondamentali dell’intero Pianeta. A un Occidente, che aveva ormai esaurito ogni “forza propulsiva”, poteva essere contrapposto quel gruppo di Paesi, i Brics, di cui la Federazione faceva parte, in grado di divenire il pivot della nuova era.

Un blocco costituito da Brasile, India, Cina e Sud Africa, in cui la Russia, con la sua collocazione ponte tra Occidente (Europa) e Oriente (Asia), avrebbe potuto avere un ruolo centrale. Le tesi di Aleksandr Dugin, capace di rievocare i fasti del passato imperiale russo, per trasformarli nel rullo compressore di una nuova ideologia.

C’era, naturalmente, del vero in quelle proiezioni. Dall’inizio del terzo millennio al 2022, secondo i calcoli del Fmi, il peso di questi ultimi, nell’economia mondiale, era passato dal 18,2 al 31,6 per cento. Sennonché, dato trascurato, il peso specifico della Russia, all’interno di quel blocco, era sceso dal 16,7 al 9,1 per cento. La dimostrazione plastica dei limiti di quel “modello di sviluppo” e del velleitarismo del delirio ideologico degli uomini di Putin. Mosche cocchiere, aggrappate alla criniera dei cavalli, ma convinte di guidarne la corsa.

Su questo sfondo, seppur rievocato per sommi capi, vanno posti gli interrogativi sul futuro della Federazione russa, dopo l’avventura dell’Ucraina. La guerra doveva consacrarla come grande potenza, capace di reggere il confronto con l’intero Occidente. I risultati di questa avventura sono quelli che sono. In compenso gli squilibri interni, come già hanno anticipato i dati sull’andamento del Pil, non sono tra i più confortanti. Le nuove previsioni del Fmi indicano una caduta del Pil per l’anno in corso e quello successivo, pari rispettivamente al 3,3 e al 2,2 per cento. Mentre negli anni successivi si dovrebbe avere una crescita più che modesta: poco più dell’1 per cento. Previsioni più che generose, se si considera che la Banca centrale russa (report di fine luglio) indicava valori ancora più preoccupanti.

Ma soprattutto è il tema di un’inflazione che, in Russia, prende alla gola. A due cifre, secondo la Banca centrale, pari al 13,8 per cento, per l’anno in corso e al 5 per quello successivo, secondo il Fmi. Ma un’inflazione ben diversa da quella del resto del mondo. In questo secondo caso le cause originarie sono quelle della guerra e del tentativo russo di utilizzare gas e petrolio (il recente accordo Opec+) come arma di ricatto nei confronti dei Paesi consumatori. In Russia, invece, essa è conseguenza della mancata produzione di quei prodotti finiti (i più avanzati dal punto di vista tecnologico) che, prima dell’inizio del conflitto, erano forniti esclusivamente dalle imprese occidentali, che ne avevano e hanno il monopolio. E oggi soggetti ad imbarco, a seguito delle sanzioni.

Quali le conseguenze? Nel primo caso (aumento del prezzo dei prodotti energetici) si tratta di un fenomeno grave, ma contingente. Ad esso si potrà far fronte, in prospettiva, con una diversificazione delle fonti (green, nucleare e via dicendo) oltre che degli approvvigionamenti dai diversi continenti. Nel secondo caso, invece, (blocco delle forniture di prodotti avanzati) si avrà l’ulteriore restringimento delle basi produttive della Russia, un forte depotenziamento delle sue basi tecnologiche. Un gap che, con il trascorrere del tempo, sarà sempre più difficile recuperare. Ne deriverà, pertanto, la negazione – sta qui la contraddizione più forte – delle basi teoriche su cui poggiava la strategia putiniana. Fondata sull’idea che il potere statuale altro non era che una derivata di una supremazia tecnologica, il cui ciclo varia nel tempo e nello spazio. Una dimensione che vedrà la presenza della Cina e forse dell’India, ma non certo della Federazione russa, ancora alle prese con quel suo male antico, rappresentato dalla “maledizione delle risorse”. Capace di frustrare ogni idea di progresso e di cambiamento: destinata, quindi, a rendere sempre più marginale, come già è avvenuto, il suo peso specifico negli equilibri mondiali.

 

 

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